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Editoriale

Una svolta per l’agricoltura

Una tutela per i prodotti regionali

La scheda degli enti che operano nel settore

La risorsa allevamenti

La rinascita della vite sarda

La scheda delle Cantine private

Segnali positivi per l’industria alimentare

Per il turismo nuove linee di sviluppo

 

Segnali positivi per l’industria alimentare

 

La ciambella di salvataggio della bilancia commerciale dell’agroalimetare è ancora una volta rappresentata per la Sardegna dall’esportazione dei prodotti caseari ovini a pasta dura e semidura. Per renderci conto della debolezza dell’agroalimentare nell’isola, basta dare uno sguardo alla bilancia commerciale 2002.

Secondo gli ultimi dati forniti dall’Inea, nel corso della presentazione, il 18 dicembre scorso, dell’annuario “Il commercio con l’estero dei prodotti agroalimentari nel 2002”, le importazioni in Sardegna dei prodotti del settore primario (prodotti dell’agricoltura e dell’orticoltura, della silvicoltura, pesca, animali vivi)  hanno raggiunto nel 2002 il valore di oltre 116 milioni di euro, a fronte di poco meno di 7 milioni di prodotti esportati; le cose vanno meglio nell’industria alimentare dove le esportazioni superano i 162 milioni di euro contro i 111 milioni di euro dei prodotti importati, con un saldo attivo di 51 milioni di euro. Ma in questo caso, bisogna sottolineare come i due terzi delle esportazioni (quasi 106 milioni di euro) sono rappresentati dai formaggi ovini di pasta dura (soprattutto Pecorino romano) esportati negli Stati Uniti. Un mercato che dà una boccata di ossigeno alla nostra bilancia commerciale ma che è  a rischio per la continua svalutazione del dollaro nei confronti dell’euro.

La Sardegna continua quindi ad importare di tutto, persino la frutta, compresi gli agrumi.

Ci salviamo ancora grazie all’esportazione dei vini, ma siamo costretti anche qui a puntare tutto sulla qualità, con un’offerta che non sempre può far fronte alla domanda. Segnali positivi giungono anche dall’olio d’oliva, dove la Sardegna eccelle per la qualità del suo prodotto.

Bisogna riconoscere, a questo proposito, che l’assessorato regionale dell’Agricoltura, con il suo Servizio Promozione e Marketing – lo abbiamo già sottolineato nelle pagine precedenti di questa rivista  – si è mosso bene, soprattutto negli ultimi anni, per migliorare l’export dei nostri prodotti, dedicando particolare attenzione alla produzione agroalimentare. Lo ha fatto, fra l’altro, partecipando a fiere nazionali e internazionali, sponsorizzando mostre, sagre e convegni ove si affrontano i temi attinenti la valorizzazione dei prodotti. Una particolare attenzione è stata rivolta ai vini, al biologico e ai prodotti di nicchia, con la partecipazione a tutta una serie di importanti manifestazioni, come il Biofach di Norimberga, il Vinitaly di Verona, il Sana Bio di Bologna, la Fiera di Colonia.

Ma vediamo ora, dopo esserci soffermati, nelle pagine precedenti, sui settori zootecnico, lattiero-caseario e vitivinicolo, gli altri prodotti dell’industria di trasformazione e conservazione.

 

Grano -Nell’antico granaio di Roma la coltivazione del grano duro ha rappresentato la base economica e sociale. Ancora oggi, economia e cultura sono legati alla presenza di questo cereale, anche se la crisi che attanaglia il settore agricolo sta mettendo a repentaglio la sua coltivazione. Le condizioni di disagio e di incertezza nelle quali si dibatte una regione debole come la Sardegna a seguito della revisione della Politica agricola comunitaria, con la riduzione del sostegno comunitario al reddito, nonché l’impreparazione dell’agricoltura sarda a inserirsi in un mercato diventato ormai internazionale, stanno aggravando una situazione già difficile, aumentando la sfiducia degli agricoltori e, in particolar modo, dei cerealicoltori. Essi, infatti, non riuscirebbero a ottenere un sufficiente ritorno economico dalla coltura. Le aziende cerealicole che costituiscono la base produttiva sono circa 5 mila, dislocate nelle aree vocate a grano duro di tutto il territorio regionale; 120 mila gli ettari che hanno interessato la coltura nell’annata 2003, con una resa tra i 35-40 quintali ad ettaro, una produzione di 2 milioni e mezzo di quintali ed un fatturato di 40 milioni di euro. Oggi viene prodotto anche grano duro da seme selezionato che affranca dall’importazione e, quindi, dai pesanti costi derivanti dal trasporto. La superficie destinata al grano da seme è attualmente di 8.500 ettari.

Per quanto riguarda i derivati del grano duro, l’industria di trasformazione, adeguandosi alle esigenze del mercato che privilegia prodotti che possano garantire genuinità e tipicità, richiede prodotti caratterizzati da elevato tenore proteico, basso contenuto in ceneri, omogeneità delle partite. La produzione sarda può rispondere a questi requisiti perché proviene da zone vocate e individuate. L’attività di sperimentazione, ricerca, assistenza tecnica ha esaltato le qualità organolettiche del cereale; sono state individuate e costituite varietà che meglio si adattano alle condizioni pedoclimatiche locali e migliorate le tecniche colturali.

Il grano duro sardo è adatto per ottenere diversi tipi di pane, pasta e dolci. Principale industria di trasformazione nell’isola è il Pastificio F.lli Cellino.

 

Riso - Altalenante nell’isola la produzione del riso, dovuta essenzialmente alle ricorrenti siccità e alla crisi che investe tutto il mondo agricolo: 3.080 ettari coltivati nell’annata 2000-2001; 2.377 ettari coltivati ed una produzione di 160 mila quintali nell’annata 2001-2002, con un fatturato di 5.440.000 euro; 3.083 ettari coltivati ed una produzione di 217.500 quintali nell’annata 2002-2003.

Crescono, invece, qualità e varietà, due elementi che hanno contribuito a far conoscere il riso isolano oltre Tirreno e che oggi può essere apprezzato per la sua «identità tutta sarda».

È soprattutto in una vasta zona dell’oristanese che la coltivazione di questo antichissimo cereale trova l’ambiente ideale, dove si contano 117 aziende risicole che occupano una superficie di oltre 2.300 ettari. Alle quali si aggiungono altre due aziende della provincia di Cagliari: una, di 370 ettari, presente a San Gavino e un’altra, di 60 ettari, operante a Muravera.

Una risaia nell'oristanese
Una risaia nell'oristanese
Quasi tutto il prodotto che si ottiene è stato sempre destinato alla semina per la sua alta germinabilità e per la bassa percentuale di impurità. E così, il 14 per cento delle sementi nazionali arriva nel Nord Italia dalla Sardegna. Continue sperimentazioni hanno successivamente spostato l’attenzione verso il riso da pila e oggi, nell’isola, se ne coltivano diverse varietà. Riso del tipo Comune (Balilla), Semifino (Lido, Padano), Fino (Ariete, Ribe), Superfino lungo A (Carnaroli, Arboreo, Baldo) e Superfino lungo B (Thaibonnet e Thai aromatica).

«Computare la quantità di riso brillato, quello cioè pronto per il consumo, risulta abbastanza difficile – rileva Sandro Stara, responsabile dell’Ufficio regionale dell’Ente nazionale risi –. Tolto il 40 per cento di scarto e di lolla, durante la lavorazione del risone, solo il 60 per cento diventa riso da alimentazione».

Una importante novità sta nel fatto che, a differenza di quanto avveniva sino a ieri, quando il prodotto veniva fornito alle grandi aziende nazionali per poi essere venduto in tutta Europa, il riso arriva negli scaffali dei supermercati, in pacchi di cartone o in confezioni sottovuoto, con una veste made in Sardinia.

Due riserie, Corisa (Consorzio risicoltori sardi) e Riso di Sardegna, entrambe di Oristano, seguendo l’intera filiera produttiva, dalla coltivazione alla produzione, al conferimento, alla lavorazione, al confezionamento e alla commercializzazione, propongono un prodotto con appena l’1,5 per cento di rotture, ben al di sotto del 5 per cento consentito dalla legge, integro e esente da macchie, lavorato senza fare ricorso a prodotti chimici o di sintesi. Quindi assolutamente biologico: dalla semina al confezionamento.

Premesse che fanno ben sperare in un mercato sempre più vasto. In attesa del riconoscimento della denominazione di origine protetta, che ne rafforzerà l’identità.

 

Pomodori -Anno dopo anno, la superficie coltivata a pomodoro da industria si riduce drasticamente, così come si assottiglia il numero dei produttori: da un migliaio a 113. Colpa delle ricorrenti siccità e della carenza di acqua per l’irrigazione. Nel 2002 la produzione si è attestata su 420 quintali (dei quali 82% nella provincia di Oristano, 10% in quella di Cagliari e 8% in quella di Sassari). Quest’anno, a seguito delle abbondanti piogge e dei buoni livelli di invaso raggiunti nei bacini, sono stati impiantati a pomodoro da industria 700 ettari, 550 dei quali in provincia di Oristano, 100 ettari in quella di Cagliari, 45 nella provincia di Sassari.

Lavorazione pomodori da conserva alla Nuova Casar di Serramanna
Lavorazione pomodori da conserva alla Nuova Casar
di Serramanna
Le elevate temperature registratesi durante il periodo della maturazione hanno drasticamente ridotto la produzione: dei 500 mila quintali previsti, ne sono stati consegnati all’industria appena 392 mila.

Per quanto riguarda la trasformazione, dopo anni di incertezze, dovute alle ricorrenti crisi dell’azienda privata che dal 1961 operava nell’isola nella produzione di pelati e all’insuccesso della successiva gestione pubblica, si sono aperte nuove prospettive.

Nel luglio 1999 la Giunta regionale delibera la vendita dei due stabilimenti conservieri esistenti nell’isola, gestiti per quindici anni dalla Sipas: la Nuova Casar di Serramanna e l’Anglona di Valledoria (Sassari). Si aggiudica la gara il gruppo Isa, società specializzata nella distribuzione di generi alimentari.

Oggi la Nuova Casar trasforma tutta la produzione regionale, compresa quindi la percentuale della Comsar di Zeddiani, con una produzione finita in peso netto di 202.325 quintali (di cui 110.800 pomodori pelati, 30.800 polpe, 43.600 passate e 17.125 concentrati) che sviluppa un fatturato di circa 15 milioni di euro così ripartiti: il 65% nell’isola, il 32% nella penisola, il 3% all’estero (Regno Unito, Svezia, Slovenia, Francia, Olanda e Madagascar). Tutta la produzione è certificata con il marchio Pai, Produzioni agricole integrate della Sardegna.

Secondo il nuovo accordo raggiunto tra la Nuova Casar e l’Arpos, l’Associazione regionale dei produttori ortofrutticoli, il nuovo prezzo a quintale del pomodoro di prima qualità “lungo” (lavorato per i pelati) è di 8 euro e 26 centesimi; per la varietà “tondo” (utilizzato per la passata e il concentrato) l’industria corrisponderà ai produttori 5 euro e 68 centesimi. A questi prezzi va aggiunto il contributo dell’Unione Europea (3,50 euro a quintale). Il produttore introiterà complessivamente 11,76 euro per ogni quintale di pomodoro lungo e 9,18 euro per ogni quintale di tondo conferiti.

 

Olio -La Sardegna produce in media soltanto il 3 per cento dell’olio italiano. Secondo le rilevazioni Istat, nel 2001 gli ettari coltivati a oliveto, fra coltura specializzata e promiscua erano 38.668; 45 mila le aziende interessate. La provincia maggior produttrice di olio è quella sassarese, dove sono presenti numerosi uliveti secolari. La spremitura delle olive avviene, in ambito regionale, negli oltre cento frantoi gestiti da privati e nei 15 appartenenti a strutture cooperative. La produzione di olio di oliva ammonta mediamente a 90 mila quintali l’anno, riuscendo a soddisfare non più del 40 per cento del fabbisogno regionale.

Da una prima lettura appare evidente che il primo sintomo negativo è la frammentazione: la media, a parte qualche rara eccezione, è inferiore a un ettaro per azienda. Ma incidono anche la disaggregazione e una scarsa azione di marketing. Da qui le pressanti richieste avanzate all’assessorato regionale dell’Agricoltura, da parte di associazioni e di enti pubblici, perché promuova una politica di aggregazione del sistema produttivo. A dire il vero, non sono mancate, negli ultimi trent’anni di politica agraria nel settore, iniziative mirate al salvataggio del patrimonio arboricolo prima e all’aumento della produzione olearia poi.

C’è, comunque, un’altra faccia della medaglia che mette in evidenza peculiarità del settore e, quindi, grosse potenzialità. Da diversi anni, infatti, gli oli sardi stanno riscontrando successi sempre maggiori, sia in Italia che all’estero, e portando a casa continui riconoscimenti. Sin dalla prima edizione del trofeo Ercole Olivario che si tiene da undici anni a Spoleto, gli oli sardi, prodotti da importanti oleifici privati e da cooperative, si sono classificati ai primi e secondi posti nelle diverse tipologie. Nell’edizione 2003, il massimo riconoscimento è andato a un’azienda dell’oristanese, la Francesco Atzori di Cabras, e alla Fattoria Enrico Loddo di Dolianova, che si sono piazzate al primo e al secondo posto nella categoria del fruttato medio. I consumatori apprezzano e acquistano gli oli sardi per le caratteristiche peculiari, dovute alle specie autoctone e alla capacità dei produttori.

Raccolta di olive nel sassarese per la produzione di olio extravergine del Consorzio oleario sardo
Raccolta di olive nel sassarese per la produzione di olio extravergine del Consorzio oleario sardo
A catalogare le varietà autoctone ha pensato il Consorzio interprovinciale per la frutticoltura di Cagliari, Oristano e Nuoro, l’ente che si occupa di micropropagazione e per il quale era necessario approfondire le ricerche sulle caratteristiche biologiche e morfologiche delle diverse cultivar: 28 le varietà che meglio si adattano alle condizioni pedoclimatiche della regione, quindi resistenti ai parassiti e meno esigenti di interventi chimici. «Un patrimonio varietale che crea valore su tutta la filiera», rileva Aldo Palomba, presidente del Consorzio, pienamente convinto che «sfruttando come punto di partenza la salubrità del territorio sardo rispetto ad altri, facendo leva sullo sforzo di molti e validi imprenditori, abbattendo le barriere campanilistiche, quindi con un’aggregazione che sfoci in un marketing aggressivo, gli oli sardi potranno contare su una platea sempre maggiore di consumatori. Saranno i tanti profumi e i tanti sapori derivanti dalle molteplici cultivar a garantire loro un futuro più interessante».

 A difendere gli oli extravergine di oliva sardi dalle aggressioni del mercato ci sarà, si spera molto presto, una delle categorie con le quali il Regolamento comunitario 2081/92 persegue l’obiettivo di valorizzare la specificità di alcuni prodotti: la denominazione di origine protetta. Quello che i consumatori potranno trovare in commercio sarà un olio Sardegna dop ottenuto con varietà Bosana, Tonda di Cagliari, Bianca, Nera di Gonnos, Tonda di Villacidro, Nera di Oliena e Semidana. Varietà che possono concorrere all’ottenimento dell’olio, da sole o congiuntamente tra loro. Un prodotto con caratteristiche chimicofisiche e organolettiche che comprendono il «colore: dal verde al giallo con variazioni cromatiche nel tempo; l’odore: da leggero a intenso fruttato di oliva, accompagnato da sentori di frutte o verdure, quali mandorla, cardo, ecc.». Il distintivo della prossima dop sarda, la quarta concessa all’isola dopo le tre relative ai formaggi pecorini, sarà costituito da due elementi che stilizzano le lettere iniziali O ed S, rappresentanti un’oliva dalla quale scende un rivolo d’olio.

 

Carciofi -Nell’annata 2000-2001 gli ettari destinati alla coltivazione del carciofo sono stati 12.099, così suddivisi: il 61% nella provincia di Cagliari (Samassi, Villasor, Serramanna, Serrenti, Sulcis), il 27,1% nella provincia di Sassari (Valledoria), il 10% in quella di Oristano (Simaxis, Zerfaliu) e lo 0,77% nella provincia di Nuoro (Tortolì, Siniscola).

La produzione unitaria media è stata di 8,8 t/ha, per un totale di 106.471 tonnellate (1.064.712 quintali). Nelle annate successive, le elevate temperature e la scarsa disponibilità di acqua hanno determinato una rilevante contrazione della superficie coltivata ed una consistente perdita di prodotto. Tra le varietà coltivate, lo spinoso sardo, il therom e il violetto di Provenza. Lo spinoso sardo, privilegiato dai consumatori e dai
Preparazione di capolini in un'azienda dell'oristanese
Preparazione di capolini in un'azienda dell'oristanese
produttori per le caratteristiche di tenerezza e sapidità delle foglie e per una maggior resistenza agli agenti atmosferici, occupa da solo il 70-75% della superficie investita. Quasi il 25 per cento dell’intera produzione, prevalentemente della varietà “Therom” e “Violetto”, per una potenzialità di 70 milioni di capolini/anno nelle buone annate, viene destinata alla trasformazione a livello artigianale e agro-industriale. Da oltre un decennio, anche il prodotto carciofo è interessato da nuove modalità di impiego e da nuove tecnologie di conservazione. Anzitutto la surgelazione. Recentemente, sono stati immessi sul mercato anche prodotti di quarta gamma (trasformati) nonché creme e sughi. La quasi totalità delle aziende che trasformano sono dislocate nel Campidano di Cagliari, in prossimità delle zone di produzione. Sono l’industria conserve alimentari Niscas di Salvatore Ena, la Campus di Barbara Congiu e la Icpa di Piras di Decimoputzu, la Pomosarda Conserve Alimentari di Dino Mudu di Samassi, la Nuova Casar di Serramanna e la Greengold di Ussaramanna.

 

Zafferano -Lo hanno ribattezzato ”oro vermiglio” e anche “oro giallo”: vermiglio per il caratteristico colore rossastro dei suoi stimmi, giallo dal colore del metallo pregiato, così come pregiata in Sardegna, per il reddito che se ne ricava, è la coltura di cui stiamo parlando.

Fiori di zafferano nelle campagne di Turri
Fiori di zafferano nelle
campagne di Turri
Introdotto nell’isola intorno al 1500, il Crocus Sativus viene coltivato soprattutto nella parte meridionale della regione, a San Gavino Monreale, Turri, Villanovafranca, ma anche a Muravera, nell’oristanese e nella Gallura. A San Gavino e a Turri i produttori, sorretti da un’antica tradizione locale, hanno esteso e valorizzato la coltivazione, ottenendo un prodotto che, per quantità e qualità, ha collocato la Sardegna al primo posto fra le regioni italiane. Su un totale nazionale di 45 ettari, 35 sono coltivati in Sardegna, 7 in Abruzzo, il resto è suddiviso tra Toscana, Romagna e Calabria.

Il prodotto zafferano è rappresentato dagli stimmi rosso aranciati del fiore, in numero di tre, che sporgono al di fuori del calice. Mediamente, 100 fiori producono 2,69 grammi di stimmi freschi; dopo l’essicazione, processo durante il quale si forma il safranale che dà l’aroma alla spezia e si ha una perdita media pari ai 4/5 del peso iniziale, si avranno 0,65 grammi di zafferano. Pertanto, per ottenere un grammo di zafferano in fili occorrono, mediamente, 100-130 fiori.

In un terreno ricco e ben lavorato e in situazione climatica ideale, la produzione media oscilla dai 7 ai 10 kg per ettaro. Nell’isola si producono, quindi, 350 kg di stimmi, pari a 350 mila grammi. Considerato che il prezzo di mercato è pari a 10 euro il grammo, si raggiunge un fatturato di 3 milioni e mezzo di euro.

Per valorizzare e difendere dalle contraffazioni questo prodotto di nicchia, i produttori si sono organizzati per ottenere dall’Ue la denominazione di origine protetta.

Zucchero - Dopo un periodo positivo, la filiera bieticola-saccarifera sta attraversando un difficile momento, dovuto alla contrazione delle superfici messe a dimora. «Tutta colpa della mancanza di acqua che ha fatto desistere i bieticoltori – sostengono allo zuccherificio di Villasor – e che rischia di creare problemi ancora maggiori per le prossime annate», mettendo in ginocchio uno dei comparti più remunerativi del settore primario, dal momento che, in condizioni climatiche normali, contribuisce alla Plv regionale per un valore di 30.987.413 euro. Senza acqua non è possibile la semina e la Sardegna rischia di perdere tutta la sua quota di produzione.

Raccolta di barbabietole da conferire allo zuccherificio di Villasor
Raccolta di barbabietole da conferire allo
zuccherificio di Villasor
Fino al 1999, il settore della coltura della barbabietola, con una superficie interessata di 6.450 ettari e una produzione di 345 mila quintali di zucchero, ha garantito l’approvvigionamento dello zucchero alla Sardegna, le cui esigenze sono di 350 mila quintali, e l’equilibrio economico dell’attività di trasformazione. Tre anni consecutivi di siccità hanno portato alla riduzione, a poco più di un terzo della media, delle superfici e dello zucchero prodotto, che ha comportato anche uno straordinario aggravio degli oneri di gestione dell’azienda. La campagna bieticola 2002 ha visto la produzione di zucchero scendere a 11 mila tonnellate (meno del 45 per cento rispetto al 2001) a fronte di una superficie a bietole ridottasi da 7.000 a 2.575 ettari. Il 2003 ha registrato una ulteriore riduzione della superficie coltivata, scesa a 2.150 ettari.

Con la privatizzazione iniziata nel 1996, lo zuccherificio di Villasor è passato nelle mani della Sadam Isz spa, al cui capitale sociale partecipano le Associazioni bieticole (tramite la loro finanziaria nazionale Finbieticola) e Sviluppo Italia.

 

Miele -«Dall’analisi dei dati forniti dall’Osservatorio nazionale della produzione del miele, risulta che la produzione nazionale è insufficiente a soddisfare la domanda interna, tanto che il nostro Paese è costretto ad importare dall’Argentina e da alcuni paesi europei come la Polonia il 50 per cento della richiesta. Il consumo pro capite all’anno di miele si attesta attorno ai 500 grammi. Questo dato, nonostante il progressivo e costante aumento, posiziona l’Italia ai più bassi gradini rispetto ai consumi degli altri Paesi dell’Unione Europea. La Sardegna non si discosta dalla penisola in termini produttivi e di consumo. Considerata però l’attuale crescente

domanda di mieli di alta caratterizzazione botanica, l’isola, per il suo clima favorevole e per la presenza di una agricoltura pulita ed estensiva, che non fa uso massiccio di pesticidi, e di numerose specie nettarifere di pregio, offre consistenti possibilità di sviluppo». Pier Andrea Ortalli, presidente dell’Unione delle Associazioni apistiche della Sardegna e dei Produttori apistici associati della provincia di Cagliari, così delinea la situazione di uno dei comparti del settore agroalimentare al quale l’Unione Europea e lo stesso assessorato regionale dell’Agricoltura hanno dedicato una grande attenzione promuovendo azioni dirette a migliorarne la produzione e la commercializzazione. Per la prima volta, l’apicoltura è stata inserita fra le «attività agricole da indennizzare» per danni causati dalla siccità.

Il patrimonio apistico sardo, presente su quasi tutto il territorio isolano, è riconducibile a poco meno di 60 mila alveari razionali condotti da 2.200 apicoltori, che garantiscono, nelle buone annate, una produzione di miele per alveare che oscilla dai 30 ai 40 kg, una produzione totale di 16 mila quintali e un fatturato di 5.681.025,88 euro. Nel 2002, la produzione di miele, a causa della siccità, si è ridotta a 5 mila quintali. Anche quest’anno si prevede un calo di circa un terzo, ma, per via delle abbondanti piogge autunnali dello scorso anno, una buona produzione di miele di corbezzolo. I prezzi all’ingrosso del miele franco produttore, Iva compresa, oscillano dai 3,60 euro ai 4,13 euro al kg, ai quali va aggiunto il costo per l’invasettamento.

La provincia di Cagliari, con il 55 per cento di alveari, detiene la più alta concentrazione, alla quale seguono la provincia di Nuoro (20 per cento), quella di Sassari (15 per cento) e quella di Oristano (10 per cento). Tra i mieli monofora si annoverano quelli di Asfodelo, Cardo, Agrumi, Eucaliptus e più raramente, ma sempre più apprezzati e richiesti, quelli di Corbezzolo, Rosmarino, Erica, Cisto, Mirto, Lavanda e Sulla.

Molto vasta anche la gamma dei multiflora, che variano in rapporto ai periodi e ai diversi areali di produzione. Recentemente, nell’ambito del Regolamento comunitario recante norme per l’individuazione di prodotti italiani agroalimentari tradizionali, con decreto ministeriale n. 130 del 18 luglio 2000, sono stati inseriti tre tipi di miele di Sardegna: Miele di Cardo selvatico, Miele di Asfodelo e Miele di Corbezzolo. Un riconoscimento che precede quello più ambito e già richiesto: la dop Miele di Sardegna.

 

Liquore di mirto -Il liquore si ottiene per infusione idroalcoolica delle bacche del Myrthus Communis, con la sola aggiunta di zucchero. Alcuni produttori lo propongono dolcificato con aggiunta di miele. Il mercato del liquore di mirto rosso, così denominato per distinguerlo da quello bianco, che viene prodotto per infusione delle foglie, ha conosciuto negli ultimi decenni un forte sviluppo: cinque milioni di bottiglie l’anno e un fatturato che sfiora i 10 milioni di euro per le 20 aziende di trasformazione. Nell’annata 2002-2003 sono stati conferiti 400 mila chilogrammi di bacche di mirto che hanno fruttato 760 mila euro agli 80 raccoglitori riconosciuti.

Al suo successo hanno contribuito l’immagine di un prodotto naturale, genuino, raffinato e il mutamento dei gusti del consumatore che gradisce sempre più nuove tipologie di liquori dolci, a base di frutta e di erbe, come il liquore al limone.

Per salvaguardare l’immagine del prodotto, nel 1994 si è costituita l’Associazione dei Produttori Liquore Mirto di Sardegna Tradizionale, alla quale aderiscono le aziende che seguono un rigido disciplinare di produzione, che obbliga l’esclusivo utilizzo di bacche di mirto raccolte nelle campagne sarde. Attualmente sono tre le aziende associate (Zedda-Piras, il cui pacchetto azionario è stato interamente acquistato dalla Cinzano, F.lli Rau di Sassari e Sa Bresca Dorada di Muravera).

 

Altri prodotti conservati -Alla fine del 2000, Greengold acquista il know how dell’azienda Is Enas di Ussaramanna, diventando l’unica e più tecnologicamente avanzata azienda isolana impegnata nel comparto della trasformazione. Non solo, Greengold si impone nel panorama nazionale come unica azienda del comparto certificata a norma Iso9002. La trasformazione riguarda i prodotti ortivi in genere, coltivati e selvatici, nella classificazione sott’olio, grigliati e ripieni, per un totale di 1.300.000 pezzi, commercializzati con etichetta “Ricette di casa mia”, ma anche un prodotto ittico locale, molto apprezzato dai giapponesi che lo utilizzano per il loro suschi: il tonno. La maggior parte del prelibato tonno rosso di corsa, pescato nelle tonnare di Carloforte e Portoscuso, che rimane in Sardegna, viene oggi lavorato dalla Greengold che propone un prodotto, il tonno sott’olio appunto, che si avvia ad ottenere dall’Ue il riconoscimento della denominazione di origine protetta. La quantità di confezioni di tonno sott’olio, nelle tre differenti tipologie Tonno, Tarantello e Ventresca, varia a seconda della stagionalità di pesca. Nella corrente annata sono stati confezionati 400.000 pezzi. Il fatturato complessivo dell’azienda è pari a 15 milioni di euro.

Inscatolamento di confezioni di marmellata in un'azienda del cagliaritano
Inscatolamento di confezioni di marmellata
in un'azienda del cagliaritano
Maggior controllo della qualità di tutti i prodotti e, quindi, maggior scelta al momento del conferimento da parte dei produttori, una lavorazione ancora quasi tutta manuale esclusa la fase del confezionamento, stanno ponendo i prodotti Greengold all’attenzione di tutto il mondo. «I nostri prodotti si propongono al consumatore privi di conservanti – sottolinea il direttore commerciale Alessio Dessalvi – dal momento che utilizziamo il metodo classico della pastorizzazione a vapore, a 92° centigradi, in modo da limitare l’introduzione di aria ed eliminare l’insorgenza di batteri».

L’altra faccia della medaglia, in tema di trasformazione di prodotti orticoli, è rappresentata, oltre che dalla Nuova Casar di Serramanna e dalla Campus di Decimoputzu, da alcune piccole aziende che, con tenacia e determinazione, concorrono a far crescere un comparto in via di espansione, come l’Ortosarda di Selargius e la Moriscos di Uta.

 

Produzione biologica - Comparto in continua ascesa, proiettato a ridisegnare i confini di un settore che si muove tra mille difficoltà: è l’agricoltura biologica, che in Sardegna ha messo radici resistenti fino a farla diventare regione leader unitamente alla Sicilia.

Secondo Bio Bank, che elabora i dati forniti dagli organismi di controllo, su un totale nazionale di 47.357 aziende di produzione e su un totale  delle due isole di 16.857, la Sardegna annovera 8.046 aziende rispetto alle 8.811 della Sicilia. La conferma del primato della nostra regione deriva dall’osservazione degli ettari di Sau biologica o in via di conversione: su un totale generale di 1.069.339 ettari e su un totale isole di 469.692, la Sau bio dell’isola risulta di 307.206 ettari, pari a un terzo di quella nazionale e al 23 per cento della Sau totale sarda. Numeri che certificano il trend positivo di un fenomeno che ha coinvolto produttori e consumatori e che ha interessato tutti gli indirizzi produttivi del comparto: dal foraggero (con oltre il 65 per cento delle aziende aderenti e quasi il 90% delle superfici coinvolte) all’olivicolo (3.500 ettari e circa 900 aziende), dal cerealicolo (5.500 ettari e 650 aziende) al viticolo (1.250 ettari), all’orticolo e all’agrumicolo (oltre 250 aziende), a quello zootecnico.

Quest’ultimo, interessando il latte, i formaggi, le carni e loro derivati, ha attraversato un momento felice, soprattutto da quando è stato emanato ed applicato nel nostro paese il Regolamento comunitario 1.804, che ha esteso alle produzioni zootecniche il campo di applicazione dei metodi di produzione biologica già definiti nel Regolamento Cee 2092/91.

«Se in termini di numero di aziende i dati sono sicuramente positivi e confortanti, non altrettanto si può dire dell’aspetto economico delle produzioni biologiche – precisa Gianni Ibba, coordinatore del settore produzioni biologiche dell’Ersat –. Infatti, il comparto fattura attualmente poco più di 20 milioni di euro e la certificazione di prodotto viene utilizzata annualmente da poco più di 200 aziende (cioè il 3% delle aziende notificate). In altri termini, è prevalso in questi anni il concetto di agricoltura biologica come fonte di aiuti al reddito concessi dalla Comunità europea, mentre è stato sottovalutato l’aspetto di valorizzazione dell’offerta connessa all’attuazione dei metodi dell’agricoltura biologica, con il risultato che i prodotti biologici sardi risultano quasi totalmente assenti dai circuiti di mercato. In definitiva, anche alla luce della scarsa disponibilità finanziaria connessa all’attuazione del Piano regionale di sviluppo rurale (le risorse non sono nemmeno sufficienti a coprire gli impegni già sottoscritti nella precedente programmazione), è necessario creare nuovo interesse sul comparto da parte dell’imprenditoria agricola sarda, concentrando l’attenzione più sugli aspetti di mercato che sulla effettiva possibilità di integrazione al reddito derivabile dagli aiuti comunitari. In effetti, oggi l’isola sta perdendo la leadership nel settore».

«Finiti gli anni delle massicce adesioni legate alla disponibilità degli aiuti comunitari e dopo l’impennata dei consumi legata agli scandali alimentari degli scorsi anni – evidenzia Giorgio Ledda, presidente regionale dell’Aiab Sardegna, la più numerosa associazione di promozione dell’agricoltura biologica nell’isola – l’agricoltura biologica sarda sta subendo un forte ridimensionamento. A partire dal 2004, continueranno a produrre biologico solo le poche aziende che troveranno la giusta remunerazione della loro scelta produttiva nel mercato, che, quindi, non potrà essere limitato a quello isolano. L’intero settore soffre, nell’isola, della mancanza di misure di sostegno alle attività di commercializzazione, al funzionamento delle Organizzazioni di produttori e delle associazioni operanti nel settore che tengano conto della specificità del biologico, i cui volumi ancora ridotti rendono difficoltoso l’accesso ai mercati nazionali e internazionali.  Per contro, il mercato locale ha una limitata capacità di assorbire produzioni biologiche e può offrire margini di crescita solo per le piccole aziende operanti nella filiera corta in ambito strettamente locale. Le vere potenzialità di crescita si trovano nei mercati nazionali e internazionali, per i quali se da un lato possiamo vantare un’immagine di genuinità e salubrità, dall’altro il tessuto produttivo delle aziende biologiche sarde non è sufficientemente strutturato. Per il comparto, quindi, si rende sempre più necessaria un’azione di sostegno che, agevolando l’aggregazione dell’offerta e riducendo lo svantaggio rappresentato dall’insularità, proietti i produttori biologici sardi sui mercati più interessanti».

 

Agriturismo - È ormai parere comune che l’agricoltura moderna, attenta a non lasciare inutilizzata nessuna delle risorse di cui dispone, può trovare nell’agriturismo una notevole fonte di integrazione del reddito dell’imprenditore agricolo ed un fattore comprimario per lo sviluppo socioeconomico del territorio nel quale si sviluppa. A distanza di oltre quarant’anni dalla sua nascita, l’agriturismo ha subito, infatti, una evoluzione profonda, entrando di diritto nel mercato turistico ufficiale e coinvolgendo un numero sempre crescente di fruitori e operatori agricoli e diventando uno degli elementi di valorizzazione delle risorse naturali e produttive dell’intero territorio. All’origine di questo potenziamento troviamo fattori come la pressione turistica, l’esigenza di organizzare il tempo libero in maniera alternativa, il recupero di una cultura del rapporto con la natura. Ovvero turismo, agricoltura, ambiente; tre mondi che si intersecano e che, proprio attraverso l’agriturismo, sviluppano il loro rapporto in maniera equilibrata.

In Sardegna, la storia dell’agriturismo inizia nell’inverno 1976-77, con una ricerca esperimento condotta nell’oristanese. Furono alcune socie della Cooperativa allevatrici sarde a sperimentare questa nuova forma di turismo attraverso la formula dell’ospitalità familiare, riscuotendo successo e coinvolgendo successivamente 149 socie, divenute così operatrici agrituristiche.

L’agriturismo si è successivamente sviluppato in tutta l’isola per impulso delle Associazioni agricole e delle istituzioni regionali, incentivato dalle leggi che si sono succedute nel corso degli anni: la legge nazionale 215/92, le leggi regionali 18/98 e 21/2000, il Por (Programma operativo regionale).

Un numero sempre crescente di aziende, agricole e zootecniche, offre un alloggio e ristorazione, o solo ristorazione, e possibilità di trascorrere il tempo libero in ambienti naturali. Il loro aumento indica chiaramente una ricerca sempre maggiore della vacanza in atmosfera bucolica, della cucina tipica e genuina, della nostra storia, della nostra cultura e della nostra ospitalità.

Al 31 dicembre 2002, risultano iscritte all’Albo regionale 485 aziende agrituristiche, 177 delle quali in provincia di Sassari, 123 in provincia di Nuoro, 90 in provincia di Oristano e 95 in quella di Cagliari; 2 mila le persone coinvolte, per un fatturato complessivo  pari al 5 per cento della produzione lorda agricola.