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Sommario


Editoriale

Un piano di rilancio per l'agricoltura

Una tutela per i prodotti regionali

La scheda degli enti che operano nell'agroalimentare

Punta sugli allevamenti l'agro-alimentare dell'isola

Marchio Igp per l'Agnello di Sardegna

Obiettivo qualità per i vini della Sardegna

Il vino si racconta, poi si beve

Alimentare in crisi per la riforma della Pac

 

Punta sugli allevamenti l'agro-alimentare dell'isola

 

È ancora il comparto Allevamenti la stampella di sostegno dell’agro-alimentare dell’isola. Il 72% delle esportazioni del settore è costituito infatti da formaggi di pasta dura e semidura, con il Pecorino Romano in primo piano, grazie soprattutto alle richieste, seppure in sensibile calo, del mercato Usa, che assorbe quasi il 60% della produzione regionale. Ma i nostri formaggi si stanno affermando anche sui mercati dell’Unione europea  e del Giappone.

di Mariella Cossu


 

Allevamento sperimentale di pecore in un ovile dell'Istituto zootecnico e caseario della Sardegna
Allevamento sperimentale di pecore in un ovile
dell'Istituto zootecnico e caseario della Sardegna
Da solo l’intero comparto zootecnico sardo contribuisce a formare il 50% della produzione complessiva vendibile agricola regionale, il cui valore, nel 2004, è stimato, a prezzi correnti, in 1.577 milioni di euro. Alla formazione di questo fatturato concorrono in misura determinante le oltre 17 mila aziende in cui si allevano ovini e caprini, le cui produzioni di latte e di carne concorrono rispettivamente al 14,62% e al 10,84% della plv agricola regionale.
Il patrimonio zootecnico isolano al 2004 – sulla base dei dati forniti dai Servizi veterinari delle otto Aziende sanitarie locali operanti nell’isola e competenti per territorio ed elaborati dal Servizio statistica dell’assessorato regionale dell’Agricoltura e Riforma agro-pastorale – vede ancora la prevalenza degli ovi-caprini, sia come numero di capi allevati che come numero di  aziende.
Con 3.784.782 capi, di cui 3.349.694 ovini e 435.088 caprini, 17.421 aziende che occupano il 40% della superficie agricola isolana, il comparto rappresenta il 37% di quello nazionale e il 54%, sempre a livello nazionale, rispetto ai bovini e ai suini. I capi bovini, nonostante lo stato di malessere del settore alle prese con una difficile ristrutturazione, aumentano, rispetto all’ultimo censimento Istat, passando da 249.350 a 295.918. Seguono 284.863 suini, 18.893  equini, 980 bufalini, 450.800 avicoli-cunicoli (ma il numero dei capi si riferisce solo a quelli “registrati”  dai servizi veterinari e potrebbe rappresentare meno del 50% della consistenza reale del comparto) e 326 ratiti (struzzi).
La produzione di carne in Sardegna interessa, in varia misura, circa 10 mila aziende zootecniche e copre il 40% dell’offerta regionale stimata in 600 mila tonnellate. I consumi di carne sono stimati attorno ai 50-60 chilogrammi pro capite annui e l’isola è costretta ad importare il 60% del suo fabbisogno.

Carne bovina
. Non si erano ancora rimarginate le ferite inflitte dalla Bse alla nostra zootecnia, che aveva visto un calo dei consumi di carni fino al 47%, quando la vita economica e sanitaria dell’intero comparto zootecnico è stata sconvolta dalla febbre catarrale degli ovini. Infatti, non solo il settore ovicaprino ma anche quello bovino è stato messo in ginocchio. Anzi, quest’ultimo è quello che forse ha pagato e paga di più le conseguenze. I rigidi blocchi, per motivi sanitari, della movimentazione dei vitelli da ristallo che i nostri allevatori inviano nei centri di ingrasso del Nord Italia, hanno confinato gli animali all’interno dei territori provinciali e regionali, con gravi perdite economiche. Gli effetti sono stati una forte contrazione degli sbocchi commerciali; a motivo dell’inadeguatezza delle strutture di allevamento e di macellazione locali, i capi non hanno trovato mercato o non sono stati sufficientemente remunerati. Non solo, sia per il latte che per la carne bovina, i conti aziendali si sono aggravati a causa del forte aumento dei costi di produzione. Sempre per le carni bovine, resta il nodo di una maggiore valorizzazione della produzione di qualità, che richiede una migliore organizzazione a livello di filiera. Intanto, cresce la dipendenza dall’Italia e soprattutto dall’estero.
Allevamento di bovini ad Arborea
Allevamento di bovini ad Arborea
Sono 295.918 i capi bovini presenti nell’isola nel 2005, allevati in 9.960 aziende, di cui circa 33 mila da latte. Nel 2003, la quantità di carni prodotte, a peso vivo, è stata pari a 651 mila quintali, per un importo di 143.449 migliaia di euro.
Nonostante le difficoltà operative che si affrontano nel garantire qualità e rintracciabilità per la carne bovina, a sostenere l’intera filiera produttiva e a garantire sicurezza alimentare ai consumatori pensa il Consorzio sardo carni, con sede a Nuoro, il quale ha avviato un progetto che prevede un sistema di etichettatura facoltativa delle carni bovine. Attraverso il coinvolgimento di tutti i soggetti della filiera – dagli allevatori, ai macelli, dai lavoratori di sezionamento fino ai macellai – il Consorzio effettua un controllo diretto di tutte le fasi della produzione. In questo modo il consumatore finale è in grado di avere tutte le informazioni sui soggetti coinvolti e, soprattutto, sul capo di bestiame in vendita. Il progetto è stato finora sperimentato nella provincia di Nuoro, ma l’intenzione del Consorzio è quella di estenderlo a tutte le altre province dell’isola. Del nuovo organismo fanno parte due associazioni già operanti nell’isola: quella “del bue rosso” e quella “del bue biologico” al quale aderiscono 20 aziende.

Carne ovina e caprina. Con un patrimonio di circa 3,8 milioni di capi, la Sardegna detiene mediamente il 37% della produzione nazionale di ovi-caprini e il 78% degli animali allevati a livello regionale. Le aziende che operano nel settore si attestano intorno alle 15 mila unità. La produzione di carne ovina è pari al 10% della produzione lorda vendibile del comparto zootecnico che a sua volta rappresenta, con il 46,4% della plv agricola regionale, il fulcro della agricoltura isolana. I consumi sono stimati attorno ai 7-8 chilogrammi annui pro capite contro i due a livello nazionale. Nel 2003 sono stati commercializzati 333 mila quintali di carne, tra ovini e caprini, per un importo di 179.868 migliaia di euro. Il cinquanta per cento dei capi macellati viene esportato nella penisola, principalmente nel Nord Italia, in Grecia, Spagna e Sud Africa.
Le carni di agnello provenienti dalla Sardegna sono sempre più richieste dai consumatori d’oltre Tirreno, che ne apprezzano le intrinseche qualità organolettiche. Dalla fine del 2005, anche sulle loro tavole è arrivata la carne di agnello sardo con il marchio “Indicazione geografica protetta”. «Si tratta  – sostengono all’assessorato regionale dell’Agricoltura – di un provvedimento di grande importanza, lungamente atteso, che ha aperto la strada alla completa valorizzazione di uno dei prodotti di maggiore importanza dell’economia agro-pastorale sarda. La mancanza dell’importante riconoscimento comunitario non consentiva infatti agli allevatori sardi di vedere riconosciuti impegno, professionalità e, quindi, un giusto riscontro economico».
Attualmente, il prezzo dell’agnello vivo spuntato dai produttori non supera i 2,10 euro al chilo, mentre prima dell’avvento della nuova moneta veniva pagato tra le 7.500 e le 8.000 lire. Il prezzo indicativo di un ovino certificato e pesato vivo è di 3,8/4 euro al chilo, che diventano circa 15 al momento della vendita. Il numero dei capi venduti sul mercato isolano ammonta a circa un milione; ma proprio il mercato locale è fortemente minacciato dall’invasione di carni di agnello provenienti dalla Polonia e dalla Romania e offerte, dissimulatamene, come carni sarde ma a prezzi inferiori. Con l’arrivo del marchio Igp, i consumatori possono individuare e distinguere il prodotto tipico.

Carne suina. La consistenza del patrimonio regionale è di 284.863 capi, di cui 90 mila scrofe, così suddiviso: il 38 % in provincia di Cagliari, il 27 %  in quella di Sassari, il 24% in provincia di Nuoro e l’11%  in quella di Oristano. L’allevamento viene esercitato, quasi per intero, allo stato brado da 17.700 aziende, con una media di 16 capi per azienda, posizionate in collina e in collina litoranea, ma anche in montagna e pianura.
Le aziende sono così distribuite: 3.167 in provincia di Cagliari, 6.722 in quella di Sassari, 5.208 in provincia di Nuoro e 2.647 in quella di Oristano. L’indirizzo è orientato, prevalentemente, alla produzione del suinetto da latte, del peso di 5-6 kg, da destinare al consumo alimentare. Inoltre, nelle porcilaie sarde si allevano esclusivamente magroni, che finiscono nei banchi delle macellerie; solo in pochissime porcilaie, tutte collocate nelle zone nuoresi del Gennargentu, si alleva il maiale pesante. Il tasso di approvvigionamento di carne è del 75%, contro quello nazionale del 78 per cento. Il 35% dell’importazione viene trasformato. Il consumo medio pro capite è di 16 kg, contro un consumo nell’Unione europea di 39 chilogrammi. Nel 2003 sono stati commercializzati 530 mila quintali di carne suina per un importo di 85.603.000 euro.
I problemi del comparto si chiamano peste suina africana e concorrenza di capi provenienti dall’estero. La prima, arrivata nell’isola nel 1978, nonostante gli sforzi fatti per eradicarla, continua a rappresentare un’emergenza: riesplode periodicamente e restrizioni, cordoni sanitari rigidi con divieti di movimentazione degli animali ai macelli e del commercio di suini vivi, carni e prodotti derivati verso le restanti regioni italiane e gli altri stati europei, fanno piombare in una profonda crisi allevatori, imprese di macellazione e commercianti di carni. L’altro problema che agita da tempo il settore del commercio è quello dell’arrivo di capi provenienti dalla penisola e dall’estero, in particolare dall’Olanda. Una concorrenza spietata che costringe gli allevatori sardi a vendere il loro prodotto a prezzi inferiori al valore reale. Carne che, se opportunamente garantita attraverso tracciabilità e certificazione, metterebbe produttori e consumatori al riparo da truffe e contraffazioni di prodotti tipici locali.
La recente crisi che ha colpito i comparti ovicaprino e bovino, ha spinto diversi attori della filiera suinicola ad agire per garantire una prospettiva alle produzioni e ai prodotti isolani. Quattro le iniziative in atto: – la costituzione di un “Comitato per la valorizzazione dei salumi tradizionali”;
–  la valorizzazione del maialetto tipico sardo;
– la valorizzazione del maiale di razza sarda;
– la richiesta di una politica di rigore verso l’eradicazione della peste suina africana.
La prima iniziativa, tesa alla costituzione di una sorta di consorzio che riunisca numerosi salumifici di tutta l’isola con l’obiettivo di promuovere e valorizzare i salumi tradizionali attraverso il riconoscimento della Igp, è supportata dal Servizio territoriale di Nuoro dell’Ersat. In Sardegna, tenuto conto dell’alto flusso di turisti nei mesi estivi, si consumano 350 mila quintali di salumi, pari a un consumo medio pro capite di 18 kg. La produzione sarda copre però soltanto il 15% dei consumi regionali. Attualmente, i salumifici che hanno aderito alla costituzione del Comitato sono 20 e producono il 75% del totale dei salumi locali, nelle varie tipologie, quantificabile in 70 mila quintali, che muove all’origine un fatturato di 40 milioni di euro.
La seconda iniziativa si riferisce alla costituzione di una cooperativa di produttori, con sede a Nuoro, per la valorizzazione del maialetto tipico sardo attraverso l’ottenimento della Denominazione di origine protetta.
La terza è finalizzata all’ottenimento del riconoscimento ufficiale della razza suina sarda e delle Dop per i salumi tipici sardi. In tale ambito si inserisce una serie di attività dell’ Istituto zootecnico e caseario per la Sardegna mirate al recupero del tipo genetico autoctono e alla tutela della diversità biologica della specie in Sardegna.

Avicoli, cunicoli. L’isola conta 4.910 aziende con 450.800 capi “ufficiali” (quelli cioè iscritti nei registri dei Servizi veterinari della otto Aziende sanitarie locali competenti per territorio). Ma il numero dei capi “effettivi” dovrebbe essere di molto superiore, se teniamo conto che il dato fornito dall’Aras, l’Associazione regionale allevatori della Sardegna,  per il 2003 era di 1.139.323 capi.  Il tasso di auto approvvigionamento è pari al 40%; l’importazione, di conseguenza, è del 60 per cento. I capi macellati annualmente si aggirano sui 5 milioni. Nel 2003, la produzione di carne è stata di 175 mila quintali, per un valore di 30.722 mila euro. 

Il comparto lattiero caseario 


Confezionamento di latte vaccino in bottiglia presso lo stabilimento di Arborea della 3A
Confezionamento di latte vaccino in bottiglia alla 3A di Arborea 
Nel sistema agroalimentare isolano, il comparto lattiero-caseario occupa ancora una posizione di rilievo. Nonostante le difficoltà degli ultimi anni, a causa di emergenze come la lingua blu, nell’annata 2002-03, con un valore medio pari a 242.592 migliaia di euro, la produzione di latte ovi-caprino ha rappresentato il  14,62 % della plv regionale. Nell’annata 2003/04, secondo i dati forniti dall’assessorato regionale dell’Agricoltura, sono stati trasformati 323.545.600 litri di latte ovino, 11.493.200 litri di latte caprino, 22.913.000 litri di latte vaccino. La produzione totale di formaggi è stata di 595.658 quintali che hanno mosso un fatturato di circa 350 milioni di euro, pari al  22% del fatturato agro-industriale regionale. L’export ha raggiunto il valore di 95,4 milioni di euro.
L’allevamento ovino, che si attua su 14.399 aziende, occupa 14-15.000 unità mentre sono 2 mila quelle occupate nel settore industriale. Il sistema di trasformazione ha perduto quasi integralmente il carattere artigianale di produzione presso l’azienda pastorale; modalità che si conserva, attualmente, quasi soltanto per il formaggio Fiore sardo. Solo una piccola parte (il 2,18% in provincia di Cagliari; il 9,33% in quella di Nuoro; il 14,95 in provincia di Oristano e il 2,47 in quella di Sassari) viene destinato alla trasformazione e al consumo nell’ambito familiare. La trasformazione industriale coinvolge 37 caseifici di proprietà privata, che trasformano circa il 38% della produzione di latte (il 55,76% in provincia di Cagliari; il 35,12% in quella di Nuoro; il 35,98% in provincia di Oristano e il 25,46% in quella di Sassari) ed in 40 stabilimenti ad organizzazione cooperativistica, che raccolgono il 67% del latte presente sul mercato.
La produzione totale di formaggi oscilla intorno ai 600 mila quintali, il 50% dei quali è rappresentato dal Pecorino Romano. Sempre secondo i dati forniti dai Consorzi di tutela e dai produttori, nell’annata 2003-2004, sono stati trasformati: 361.129 quintali di Pecorino Romano, 15.792 quintali di Pecorino Sardo, 6.104 di Pecorino Fiore Sardo, 69.613 di Toscanelli e Semicotti; 29.538 di Canestrati; 57.575 di formaggi a pasta molle (stagionatura medio-breve, 25-40 giorni) tipo Caciotta o Caciottone, oppure a rapida maturazione, tipo Bonassai; 36.994 di altri tipi; 11.674 quintali di formaggi misti pecora/vacca e pecora/capra. Senza dimenticare la pregiata ricotta gentile, prodotta in quantità pari a 100-120 mila quintali, consumata in parte in Sardegna e in parte esportata nella penisola. La Sardegna vanta anche tre Dop, che rappresentano il 64% delle produzioni casearie: una per il Pecorino Romano, una per il Pecorino Sardo e una terza per il Pecorino Fiore Sardo. L’ entrata nell’Unione europea dei Paesi Peco, alcuni dei quali a forte vocazione zootecnica, produttori di formaggi pecorini da immettere sul mercato a basso costo perché ridotto è il costo della manodopera, potrebbe creare delle conseguenze negative per i prodotti caseari isolani derivati dalla trasformazione di latte ovino. Potrebbe, ma non dovrebbe. I nostri formaggi pecorini, già tutelati dalla Denominazione di origine protetta, possono e devono sfidare il mercato.
Per salvaguardarli dalla concorrenza sleale è però necessaria una politica di difesa della loro autenticità. I pecorini sardi sono ormai conosciuti in tutto il mondo ma non riescono a sfondare il muro che li separa dal mercato medio-alto, che è quello più remunerativo. Da qui la necessità di farli maggiormente apprezzare, portando a conoscenza di tutti i consumatori, a partire da quelli sardi, la storia del prodotto, del suo legame con il territorio come espressione di un ecosistema unico e straordinario, che dà essenze foraggere particolari che caratterizzano la materia prima anche sul piano sensoriale, e quindi meritevoli di essere apprezzati dal mercato nel prezzo di cessione.  

Il nuovo marchio del Consorzio di tutela del Pecorino Romano Dop
Il  marchio del Consorzio di
tutela del Pecorino Romano
Dop
Pecorino Romano
. Nonostante il calo di produzione degli ultimi anni, a causa di emergenze come la blue tongue e i precedenti andamenti climatici, e le recenti difficoltà a raggiungere gli Usa non solo a motivo dell’ evoluzione del mercato internazionale per via dell’euro forte ma soprattutto del taglio dei premi all’export da parte di Bruxelles, ridotti di 2 milioni di euro, il Pecorino Romano Dop è il prodotto più importante del comparto lattiero-caseario sardo.
Al Consorzio di tutela aderiscono 52 aziende casearie mentre i produttori che versano il latte assommano a 11 mila. Il 60-64% della produzione di Romano viene esportato negli Stati Uniti ma è in crescita la sua presenza su mercati dell’Unione europea e in Giappone.
Nella campagna 2002-2003 la produzione sarda è scesa a 297.514 quintali, per un valore di 153 milioni di euro, 50 dei quali rappresentati dal cappato nero, visto da sempre come un marchio di qualità, soprattutto dai consumatori americani. Alla fine del 2003, il prodotto ha fatto registrare un incremento del fatturato del 5,5 per cento.
L’annata 2003-2004 ha visto, con 366.368 quintali, una ripresa della produzione; mentre l’annata successiva, 2004-2005, ha fatto registrare, con 234.140 quintali, una riduzione produttiva del 37 per cento.
Per quanto riguarda l’esportazione, uno studio di Nomisma,  redatto sulla base dei dati forniti dal Dipartimento dell’Agricoltura degli Usa, informa che negli ultimi tre anni, dal 2003 al 2005, l’esportazione dalla Sardegna di Pecorino Romano for grating (da grattugia) nel mercato statunitense si è attestata sui 180 mila quintali: una quantità inferiore a quelle ottenute nell’isola sino al 2000 (sempre superiori ai 200 mila quintali, con una impennata, nel 1996, di 245 mila quintali) ma in grado comunque di assorbire circa il 60 per cento dell’intera produzione sarda. Infine, per quanto concerne il prezzo, Nomisma precisa che negli ultimi quattro anni si è attestato, sempre nel mercato statunitense,  sui 5,30 dollari al chilogrammo, ben al di sotto dei 7 dollari e 50 spuntati dal Parmigiano Reggiano.
Facendo il punto sulla situazione, il presidente del Consorzio di tutela, Toto Meloni, ha osservato che «occorre confermare il processo qualitativo, andando oltre la certificazione del prodotto finito, individuando un progetto di filiera che valorizzi il latte, l’uomo allevatore-produttore e quindi compartecipe del sistema, il formaggio e che garantisca anche il consumatore. Il quale deve essere portato a conoscenza non solo della metodologia di produzione, ma di tutta la storia del prodotto: i fattori ambientali, quelli tecnici e quelli umani».
La vertenza tra allevatori e industriali sul prezzo del latte, ha messo in evidenza la necessità, per far crescere il settore ovicaprino, di creare un patto di filiera tra produttori, trasformatori e chi commercializza i formaggi sardi ma anche di diversificare la produzione, riducendo la produzione di Pecorino Romano a vantaggio di prodotti più remunerativi.

Pecorino Sardo. Sono 33 le aziende associate al Consorzio per la tutela del Pecorino Sardo, alle quali si aggiungono otto aziende confezionatrici che hanno chiesto di poter utilizzare il marchio e, quindi, sottoposte al sistema di controllo e certificazione. Dal 2000 al 2004, la produzione totale marchiata del Pecorino Sardo Dop è passata da 3.564  a 15.792 quintali, così suddivisa: 6.635, 55 quintali, pari al 42% del totale, di Pecorino dolce e 9.156,47 quintali, pari al 58% del totale, di Pecorino maturo. Nel 2005 gli aderenti al Consorzio hanno prodotto 16 mila quintali.
La potenzialità della produzione marchiata è pari a 60 mila quintali. Una quantità che il Consorzio per la tutela intende raggiungere attraverso una serie di iniziative, per evitare che il Pecorino Sardo Dop venga confuso, come avviene ancora oggi, con formaggi tipo Pecorino Sardo.
Da sempre impegnato nel miglioramento della qualità delle produzioni e nella difesa della loro tipicità, il Consorzio ha avviato il nuovo sistema di etichettatura: i contrassegni della Qualità. Su tutte le produzioni di pecorino, nelle due tipologie dolce e maturo, pronte allo svincolo nella zona di produzione,viene apposto un contrassegno ad inchiostro alimentare che costituisce parte integrante del disciplinare di produzione e che riporta le iniziali maiuscole della Denominazione (PD Dop) ed il casello identificativo dell’azienda di produzione.
Stagionatura di Pecorino Sardo
Stagionatura di Pecorino Sardo
Inoltre, al momento dell’ immissione al consumo, a seguito di un’ulteriore verifica di conformità e qualità, l’identificazione visiva delle forme rispondenti ai requisiti richiesti dal disciplinare è affidata ad altri due elementi costitutivi della Denominazione e parte integrante del disciplinare: l’etichetta del produttore in cui è presente il marchio Pecorino Sardo Dop disposto a raggiera ed un bollino numerato (verde per le forme di Pecorino dolce e blu per quelle di Pecorino maturo) rilasciato dal Consorzio di tutela, che viene apposto direttamente sulla corona esterna dell’etichetta in cui è presente il marchio.
Il Consorzio è anche impegnato in una incisiva campagna promozionale. Ogni anno, nel mese di giugno, si svolge la manifestazione “Caseifici aperti”. Un gran numero di aziende associate aprono i loro stabilimenti, all’interno dei quali i visitatori possono effettuare visite guidate, ottenere informazioni sulla Dop e sul Consorzio, degustare il prodotto offerto. Una seconda iniziativa è rivolta alle scuole elementari e medie mentre agli inizi della stagione autunnale si svolgono le “giornate professionali del banco formaggi” riservate a ristoratori, addetti al banco formaggi della grande distribuzione, dettaglianti.

Pecorino Fiore Sardo.Un discorso a parte merita il Pecorino Fiore Sardo. Ultima nata delle tre Dop, il formaggio della tradizione pastorale, deve ancora difendersi dalle contraffazioni. «Sul mercato – afferma Francesco Rubanu, nuovo presidente del Consorzio di tutela – è facile trovare del semicotto spacciato come Fiore Sardo. Una maggiore tutela potrebbe derivare da una diversa marchiatura della produzione». L’attuale certificazione è rappresentata da un bollo di caseina, apposto al centro della forma. Con la porzionatura il bollo rischia di scomparire. La conseguenza è che sui banchi dei supermercati ma anche delle rivendite specializzate è possibile acquistare pecorini tipo Fiore Sardo al posto del Fiore Sardo Dop.
Il Pecorino Fiore Sardo, per potersi fregiare della denominazione Fiore Sardo Dop, deve stagionare nell’isola per un periodo non inferiore a 105 giorni. Attualmente se ne producono circa 6 mila quintali all’anno per un fatturato complessivo di 5 milioni di euro; la produzione marchiata è di appena 2.300 quintali, per un valore di quasi 1,9 milioni di euro.

Lavorazione di provole di latte vaccino alla 3A di Arborea
Lavorazione di provole di latte vaccino alla 3A di Arborea
Formaggi vaccini.
Con 656 aziende in produzione, 32.464 vacche da latte, 2.279.130 quintali di latte, un valore medio annuo pari a oltre 113 milioni di euro, anche il comparto lattiero-caseario vaccino occupa una posizione di tutto rispetto nel nostro sistema agroalimentare. Oltre il 60% della produzione viene assorbita dal latte alimentare, pastorizzato fresco o a lunga conservazione con sistema Uht. Il restante 40% viene lavorato e trasformato in mozzarelle, burro, formaggi a pasta molle e yogurt.
Quasi il 97% della produzione di latte vaccino sardo viene lavorato e trasformato dalla cooperativa 3A di Arborea. Cooperazione e ricerca della qualità sono le armi strategiche che hanno consentito alla cooperativa di diventare azienda leader nel comparto. Duecentocinquanta soci in tutta l’isola, in rappresentanza di 350 aziende, che conferiscono giornalmente 600 mila litri di latte vaccino; produzione di latte fresco alta qualità o come Uht e prodotti derivati come panna e burro, formaggi molli (Dolce Sardo, Crescenza e Provolette) e stagionati, mozzarella, spalmabili e yogurt; un fatturato annuo di 112 milioni e 792 mila euro. Presente in tutta l’isola con un proprio marchio, la cooperativa 3A vende i suoi prodotti in quasi tutte le regioni del Meridione, dal Lazio alla Sicilia. Il latte Uht prende continuativamente la via della Libia.
L’obiettivo più prossimo: approfondire la conoscenza di un mercato profondamente modificato dopo l’ingresso di alcuni paesi possibili competitor  pericolosi e, successivamente, aggredire il mercato europeo e del nord Africa. Con la solita arma vincente, la qualità. Senza tralasciare la funzione di polo regionale di aggregazione dei produttori di latte vaccino sardo allargato.