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Editoriale

Un piano di rilancio per l'agricoltura

Una tutela per i prodotti regionali

La scheda degli enti che operano nell'agroalimentare

Punta sugli allevamenti l'agro-alimentare dell'isola

Marchio Igp per l'Agnello di Sardegna

Obiettivo qualità per i vini della Sardegna

Il vino si racconta, poi si beve

Alimentare in crisi per la riforma della Pac

 

Il vino si racconta, poi si beve

 

 

di Enzo Biondo

 

La sede della Sella & Mosca fra i vigneti della località
La sede della Sella & Mosca fra i vigneti della località "I Piani" di Alghero
Al Vinitaly, la più grande rassegna internazionale del vino, che ogni anno si svolge nella città scaligera di Giulietta e Romeo,  non puoi mancare.
E le ragioni sono tante e tutte legate alla ricerca di quelle risposte che, giorno dopo giorno, ti assillano la mente per scoprire una formula magica che ti possa consentire di vendere tutto il tuo prodotto, al prezzo migliore e nel più breve tempo possibile.
Basta muovere il primo passo all’interno della Fiera e ti accorgi che il mondo del vino è più grande di quello che avevi immaginato, immenso, e mentre ti guardi intorno percepisci subito la tua dimensione, una goccia nell’immenso oceano del vino. All’inizio, ti muovi imbarazzato in mezzo a milioni di bottiglie di vino provenienti da tutto il mondo, bottiglie che sotto i riflettori brillano come diamanti, con etichette multicolori, curate nei minimi particolari. Poi ti organizzi le idee e ti trovi ad ascoltare la conferenza sullo stato di salute dell’economia vinicola nazionale, dove ti viene comunicato che il suo giro d’affari è pari a circa 8.000 milioni di euro, che l’industria del vino nazionale occupa circa 1,2 milioni di persone, che la produzione vinicola italiana rappresenta il 34% di quella europea e il 21% di quella mondiale.
In pratica l’Italia continua ad essere il secondo produttore al mondo dopo la Francia con una produzione di circa 45 milioni di ettolitri di vino parcellizzato in circa 760 mila aziende vitivinicole di dimensione medio-piccola, con 37.000 imprese imbottigliatrici e circa 2.000 unità industriali.
Il mercato del vino italiano, ovviamente quello di alta qualità, ha registrato in questi ultimi anni ottimi livelli di crescita verso le esportazioni, raggiungendo la consistente cifra di oltre 2,7 miliardi di euro.
Che la qualità del vino paghi, assicurando ritorni più alti anche di altri settori industriali, è avvalorato da esempi come quello di Chateau Margaux, di proprietà della famiglia Agnelli, che ha recentemente ceduto il 75% del capitale della tenuta dove si produce uno dei Bordeaux più esclusivi, valutata complessivamente circa 350 milioni di euro.
La buona tenuta del mercato vitivinicolo a livello di fatturato complessivo e di crescita del mercato interno è in linea con gli anni trascorsi, non altrettanto però si può dire per il fatturato dell’esportazione (che rappresenta almeno un terzo della produzione totale) con un calo dei volumi di circa il 17% e di oltre il 4% in termini di valore. Complice il caro-euro o l’aggressività dei produttori stranieri? In primo piano i vini australiani e sudafricani, cileni e argentini e, per ultimo, anche i vini della Cina che al recente Vinitaly di Verona sono stati offerti in degustazione, dal sapore forse più vicino a una limonata che al vino inteso come gusto europeo.
È forse l’inizio di una crisi per la bevanda del Bacco italico? Tutti gli analisti concordano verso l’ottimismo indicando, come fa anche Mediobanca, nell’accrescimento ulteriore della qualità e nella diversificazione delle produzioni, con un orientamento verso la scelta di vitigni autoctoni e nell’affinamento del marketing, la politica più giusta per difendersi dallo “straniero”.
L’enologia italiana, e quella sarda in particolare, possiede un patrimonio ineguagliabile di  vitigni autoctoni di assoluto valore, quanto basta per riuscire a rivoluzionare un settore particolarmente globalizzato e praticamente omologato.
A livello nazionale le grandi marche italiane procedono su due fronti:  elevando sempre più la qualità dei loro prodotti; praticando fusioni e acquisizioni (mer­ger & acquisition) al fine di  abbattere i costi.
Negli ultimi tre anni le operazioni di m&a che hanno riguardato il mercato italiano sono state complessivamente 14  per un valore complessivo di circa 700 milioni di dollari. Tra le acquisizioni di maggior rilievo si ricordano alcuni esempi, come quello della Società Campari che ha acquisito il 100% della Zedda Piras e della Sella & Mosca (87 milioni di dollari), della Società Illva di Saronno che ha acquistato il 100% della siciliana Duca di Salaparuta (70,8 milioni di dollari), dell’americana Robert Mondavi che ha acquistato il 100% della Casa vinicola Ornellaia (60 milioni di dollari), della Cantine riunite di Modena che ha rilevato il 100% della Cantine Maschio (35 milioni di dollari).
Tra le regioni italiane anche la Sardegna fa la sua parte, ovviamente quella di “cenerentola”, in considerazione del fatto che la produzione vinicola isolana non supera mediamente il milione di ettolitri di vino, produzione questa gestita alla pari tra cantine cooperative e produttori privati, proveniente dagli impianti viticoli distribuiti su tutto il territorio isolano, per complessivi 30 mila ettari circa. 
Una grossa percentuale del vino sardo, circa l’80%, viene venduto in eleganti confezioni di diversa capacità (delle quali il 40% circa va in esportazione e il 60% circa distribuito nell’isola attraverso i canali Horeca e Gd), mentre la restante quota viene consumata dagli stessi piccoli produttori, oppure esitata, a seconda della richiesta, in confezioni non sigillate.
Fusioni e acquisizioni in Sardegna neanche a parlarne; in questi ultimi anni, oltre alle ormai consolidate aziende vitivinicole, reduci del “terremoto espianti”, si è assistito nell’isola ad una proliferazione di piccoli produttori-imbottigliatori ciascuno dei quali promuove la vendita di migliaia di bottiglie di vino, molto spesso anche di eccellente qualità, le più efficienti delle quali si sono anche dotate di stabilimento di lavorazione, tecnologicamente attrezzato e moderno, mentre molti altri si garantiscono la collaborazione del Consorzio provinciale per la frutticoltura di Cagliari che assicura loro tutto il processo di lavorazione fino all’imbottigliamento.
È la logica del “piccolo è bello” oppure “meglio solo che male accompagnato”; ma è anche la logica di fazzoletti di terra coltivati a vigneto da oltre 38 mila imprese che mediamente non superano 0,67 ettari per azienda.
Le cantine cooperative per fortuna svolgono ancora un ruolo importante in Sardegna, riuscendo a gestire migliaia di piccoli viticoltori altrimenti destinati all’estinzione. Ma è anche vero che spesso alcune di queste strutture accusano dei limiti commerciali, ricorrendo di fatto al congelamento di nuove iscrizioni sociali.
Analizzando questa nuova e moderna frontiera vinicola isolana viene da pensare che, comunque sia, si va affermando una notevole crescita culturale di buon livello che, proprio perché si sta accollando in prima persona tutto il rischio d’impresa, necessiterebbe, soprattutto in questo momento, di un significativo “contributo” organizzativo di posizionamento e d’immagine, sulla linea di quella sviluppata anche da altre Regioni italiane.
In buona sostanza, non è da trascurare l’aspetto che vendere non vuol dire fare solo prodotti di buona qualità; spesso vuol dire anche sapersi raccontare, con tecniche commerciali raffinate e mirate che solo professionisti preparati conoscono e sono in grado di trasmettere. Professionisti che sappiano raccontare ad un americano o a un giapponese che cosa significa Cannonau, Vernaccia e Semidano e in cosa si distinguono questi vini dagli altri concorrenti in giro per il mondo, sempre più globalizzato.
Forse, più che Consorzi tra produttori, bisognerebbe stimolare Consorzi di commercializzazione, una specie di joint venture del vino sardo, ma anche di tutto l’agro-alimentare, per conquistare quelle nicchie di mercato dove il consumatore  desidera assaporarne anche il piacere di un territorio, di lasciarsi affascinare dalla sua storia, dalla tradizione, da usi e costumi oggi schiacciati sempre più verso il basso, da un consumismo frettoloso e vorace, schiavo di messaggi sempre più frenetici e accattivanti.
E, soprattutto, va difesa la qualità dei prodotti, costituendo i Consorzi di Tutela, previsti anche dalle nuove direttive della legge sulle denominazioni di origine. È assolutamente necessario attenersi a regole condivise da tutti, altrimenti non si va da nessuna parte. I prodotti francesi, prima ancora di essere immessi sul mercato, sono sottoposti a ben cinque commissioni di degustazione che ne certificano l’assoluta qualità.
Desidero infine segnalare un importante contributo, giunto recentemente da due registi americani, in difesa della cultura del vino, con due pellicole molto diverse e forse proprio per questo entrambe importanti per il messaggio che riusciranno a trasmettere.
Il primo documentario è del regista Jonatan Nossiter, con Mondovino “la guerra del gusto”, realizzato con una serie di interviste che rivelano cosa c’è dietro una bottiglia di vino, chi decide e quale sarà il gusto del prossimo vino che scalerà le classifiche mondiali, chi ne determina il prezzo, chi ne tramanda l’antica arte tra i produttori, in continua concorrenza, dalla Toscana, alla Borgogna, dall’Australia all’America, dal Cile al Sud Africa, fino alla Sardegna.
Da questo film si evince come la posta in gioco è alta: da una parte chi difende con orgoglio le tradizioni, la storia, il sapore del territorio, dall’altra le multinazionali del vino, governate da banchieri, assicuratori, imprenditori del mattone, con affari da capogiro (mi limito a segnalare che oltre il 60% della produzione vitivinicola australiana è gestita da quattro imprese).
Nossiter, fa trasparire nel film l’attuale situazione del vino, nel passaggio tra coloro che lo producono e coloro che lo consumano, mettendo altresì in risalto l’eccessiva omologazione del prodotto e la speculazione economica praticata dai molteplici “Guru” del vino attraverso le innumerevoli “Guide a tre e più bicchieri” sparse per il mondo.
La dinasty della produzione enologica mondiale viaggia attraverso la California, la Toscana e la Borgogna per giungere fino a Bosa, in Sardegna.  Parlano di vino gli Antinori, i Frescobaldi, i Mondavi e i francesi Guibert e Hubert de Montille. Parlano di imperi viticoli, di bottiglie storiche, di tradizioni familiari incorniciate di nobiltà e di castelli, parlano di affari miliardari per giungere finalmente nell’isola del ”paradiso vitivinicolo”, in Sardegna, dove a Magomadas, nella storica sub-regione della Planargia, G. Battista Columbu, ottantacinque anni portati bene, sardo bosano, conduttore e titolare assieme alla moglie Lina di un modesto vigneto di 3,5 ettari di “Malvasia di Bosa” Doc,  impiantato sui banchi calcarei e asciutti, parla con modesta sapienza, del “nettare degli dei”, del “Nobile” Malvasia di Bosa, vino unico al mondo nel suo genere.
Produrre un buon vino, sostiene Columbu, «è un mestiere da poeti», vini non omologati e mai omologabili, che nemmeno l’enologo bordolese Michel Rolland, ritenuto più famoso al mondo, saprebbe costruire (famoso anche per aver assicurato il proprio odorato e palato per la modica cifra di un milione di dollari).
L’altro film, del regista Alexander Payne con “Sideways” (strade secondarie), è una semplice commedia spiritosa e divertente, dove i due protagonisti-amici parlano tanto di vino e altrettanto ne bevono, con competenza da manuale da degustazione. In questa pellicola si parla soprattutto di grandi vini con un mutato atteggiamento nei confronti della civiltà di Dioniso e Bacco rispetto alla diffusa mentalità anglosassone, che consuma latte, caffè lungo, birra, superalcolici, e il vino lo beve solo lontano dai pasti.
In questo caso invece il vino si beve a tavola, mangiando, apprezzandone il suo gusto e la sua storia, alla moda della cultura europea, con una sola nota stonata, forse una provocazione voluta dallo stesso regista, come quella di far consumare all’attore un vino raro e importante, uno Chàteau Cheval Blanc del ’61, utilizzando un bicchiere di carta da Coca-Cola, mentre addenta un hamburger.
Nel mezzo ci sono “le Strade del Vino”, che corrono tra i lussureggianti vigneti californiani, con soste di degustazione in aziende vinicole dove si mangia e, soprattutto, si beve Merlot, Pinot nero e Cabernet Sauvignon, con quel giusto approccio culturale che consente di godere del piacere del vino senza mai cadere nella banalità.
Una settimana di vagabondaggi etilici che non hanno trascurato, di volta in volta, di esaltare la buona qualità dei vini californiani, ovviamente.
Quelle stesse “Strade del Vino” che hanno reso famosi, già mezzo secolo fa, i vini francesi e quelli tedeschi (per quel poco che producono); le stesse “Strade del Vino” che in molte regioni italiane indirizzano verso le cantine, piccole e grandi, milioni di appassionati degustatori.
Se ben organizzate, se sponsorizzate dalla Regione, se gestite da giovani preparati, se collegate al territorio ricco di storia, di buona cucina e di antiche tradizioni, se predisposte per indirizzare un turista curioso, colto e appassionato, non importa se locale o straniero, allora anche il vino sardo, tra percorsi di Vernaccia, di Cannonau, di Semidano, di Vermentino, di Monica e Carignano, solo per citarne alcuni, sono certo, saranno in grado di unificare, promuovere e valorizzare l’intero paniere dell’agro-alimentare sardo, ricchezza ancora oggi sottovalutata e non sufficientemente espressa.