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Editoriale

Un piano di rilancio per l'agricoltura

Una tutela per i prodotti regionali

La scheda degli enti che operano nell'agroalimentare

Punta sugli allevamenti l'agro-alimentare dell'isola

Marchio Igp per l'Agnello di Sardegna

Obiettivo qualità per i vini della Sardegna

Il vino si racconta, poi si beve

Alimentare in crisi per la riforma della Pac

 

Alimentare in crisi per la riforma della Pac

 

La chiusura dello stabilimento saccarifero di Villasor, conseguente alla decisione di Bruxelles di ridurre le quote nazionali di produzione di zucchero e il mancato posizionamento sui mercati delle eccedenze del pomodoro trasformato nel 2005 da parte della Nuova Casar di Serramanna, sono gli esempi più significativi della crisi che attanaglia il settore della trasformazione dei prodotti agricoli nell’isola.

di Mariella Cossu


Non c’è settore del comparto primario, nell’isola, che non debba fare  i conti con il susseguirsi delle annate siccitose, con un clima capriccioso e costante da far dormire sonni poco tranquilli agli operatori agricoli. Perché sono proprio loro, l’anello debole della filiera, a soccombere, soprattutto quando si trovano in presenza di una concorrenza con i paesi comunitari a maggiore efficienza produttiva e con i paesi extracomunitari avvantaggiati dai più bassi costi di produzione. È il caso dei carcioficoltori costretti a fare i conti con la produzione egiziana e greca. La chiusura dello stabilimento saccarifero di Villasor, conseguente alle decisioni di Bruxelles di ridurre a tutti i Paesi membri le quote nazionali di produzione di zucchero e il mancato posizionamento sui mercati delle eccedenze del pomodoro da industria, trasformato nel 2005 da parte della Nuova Casar di Serramanna, sono i più significativi esempi della crisi che attanaglia la nostra agricoltura. 

Grano.  I dati sull’andamento delle semine 2005 dei cereali autunno-invernali trasmessi da Ismea e Unione seminativi hanno confermato il previsto crollo degli investimenti a grano duro: una contrazione delle superfici, a livello nazionale, del 28% rispetto al 2004, con valori assai differenti nelle singole regioni. Puglia, Sardegna, Sicilia, Toscana le regioni più colpite.
In Sardegna, a seguito di una riduzione del 33%, gli ettari seminati sono scesi dai 96.710 ettari del 2004 ad appena 64.796 nel 2005. Secondo gli esperti, a rivoluzionare il comparto cerealicolo sono le prime reazioni degli operatori alla riforma della Pac, l’introduzione della politica di sostegno dei redditi agricoli fondata sul regime del premio unico aziendale disaccoppiato dalla produzione (prima era privilegiata l’integrazione del reddito dell’agricoltore, ora si premia il mantenimento dello status quo e si chiede al medesimo l’impegno su tecniche agronomiche valide e sul rispetto dell’ambiente), le negative condizioni di mercato, i bassi prezzi spuntati per i cereali raccolti nel 2004, con quotazioni arrivate ai minimi storici.
A rischio sembrerebbe l’intera filiera, con l’industria sementiera che si ritrova con forti giacenze di sementi invendute e l’industria della pasta che potrebbe essere costretta a ricorrere alle importazioni per buona parte del suo fabbisogno.
Nell’isola, le zone vocate a grano duro sono principalmente quelle del Medio Campidano, della Marmilla e della Trexenta, in provincia di Cagliari, del Campidano di Oristano, della Nurra e dell’Anglona, in provincia di Sassari. Lo scorso anno, dai 96.710 ettari destinati a grano duro sono stati raccolti due milioni di quintali di prodotto, che hanno garantito un fatturato di 32 milioni di euro. A parte una percentuale riservata alla semina, la maggior parte del grano finisce nei piccoli e grandi molini per essere trasformato in semola e farina, materie prime per pane, pasta e dolci ottenuti nei laboratori di panificazione e delle aziende pastarie e dolciarie : Sem dei fratelli Cellino, Brundu di Macomer, Galleu di Ozieri. Solo una minima parte è destinata ad uso zootecnico.
Un importante ruolo nella incentivazione alla produzione e nella valorizzazione del grano duro sardo, caratterizzato da un elevato tenore proteico e basso contenuto in ceneri, viene svolto dal Co.Sa.Cer., il Consorzio sardo cerealicoltori con sede a Sanluri, che associa 800 produttori. Tra le iniziative in atto, la creazione della filiera del grano, un progetto di quasi cinque milioni di euro, nato con un Programma integrato d’area di “Sa Corona Arrubia” e finanziato al 50% dalla Regione. Obiettivo: produrre pasta di grano e soia, con particolari capacità nutritive, da esportare in Europa e Stati Uniti. A regime, potranno essere prodotti 250 mila quintali di pasta all’anno. 

Una risaia nell'oristanese
Una risaia nell'oristanese
Riso.
Sempre altalenante nell’isola la produzione di riso. Ricorrenti siccità e crisi del mondo agricolo avevano già determinato una contrazione degli ettari messi a dimora. L’applicazione del nuovo prezzo di intervento deciso nella riforma della Pac 2003, con un abbassamento del livello di protezione tariffaria, costi di produzione più alti, ricavi sempre più incerti ed una maggiore permeabilizzazione alle importazioni di riso lavorato e semigreggio dai principali paesi produttori da parte di un mercato europeo più aperto nei confronti del contesto internazionale hanno fatto il resto. E tra i risicoltori sardi cresce il pessimismo. Nell’annata 2001-2002 gli ettari coltivati sono passati da 3.083 a 2.377 con una produzione di 158 mila quintali ed un fatturato di 5.440.000 euro;  2.904 gli ettari coltivati nell’annata 2002-2003, con una produzione di 196.800 quintali ed un fatturato di 6.093.000 euro; l’annata 2004, con 3.108 ettari a dimora, ha visto calare la produzione a 186.000, con un fatturato stimato di circa 7.200.000 euro. Nel 2005 sono stati messi a dimora 2.387 ettari che hanno prodotto 145.000 quintali di riso. Crescono qualità e varietà: Arborio, Roma, Balilla e Ariete le cultivar più prodotte. Rimane il problema del prezzo: se fino alla fine degli anni novanta il risicoltore incassava anche 90 mila lire al quintale, oggi, a causa dell’apertura ai mercati internazionali, riesce a vendere a 15-20 euro al quintale. Con costi di produzione che si aggirano sui 2 mila euro per ettaro.
Con 102 aziende e 2.593 ettari messi a dimora nei campi di Oristano, Santa Giusta, Cabras, Simaxis e Zeddiani, la provincia di Oristano si conferma leader nella produzione di questo antichissimo cereale. Due le aziende che operano in provincia di Cagliari, a San Gavino Monreale e a Muravera, su una superficie complessiva di 515 ettari. Sempre ad Oristano si trovano i due stabilimenti che seguono l’intera filiera produttiva, dalla coltivazione alla produzione, al conferimento, alla lavorazione, al confezionamento e alla commercializzazione: la Corisa (Cooperativa risicoltori sardi) e la Riso della Sardegna spa.
Sette dipendenti fissi e tre stagionali, quaranta soci conferitori che portano circa 28 mila quintali di prodotto, un fatturato annuo di circa un milione e 800 mila euro, un mercato nazionale che assorbe circa l’80% della produzione mentre il restante 20% viene commercializzata nell’isola: è la carta di identità della Corisa. Dodici dipendenti che lavorano mediamente 50 mila quintali all’anno di prodotto grezzo conferito da 26 produttori e un fatturato di 3,5 milioni di euro, un mercato prettamente isolano: sono invece i dati distintivi della  società Riso della Sardegna, con il suo storico stabilimento nato nel 1951.
 

Pomodoro.  Calano sia gli ettari messi a dimora che la produzione. Nel 2003, dei 500 mila quintali previsti ne sono stati consegnati all’industria appena 392 mila. Nel 2004 sono stati 550 gli ettari coltivati a fronte dei 650 programmati, con rese medie di 730 quintali per ettaro, localizzati per 1’82% (460 quintali) in provincia di Oristano e il restante 18% suddivisi tra le province di Cagliari e Sassari. La produzione complessiva regionale è stata di 435 mila quintali, dei quali 60% di prima qualità della varietà “lungo” (lavorato per i pelati) e 40% della varietà “tondo” (utilizzato per la passata e il concentrato). Nell’annata 2005, dai 615 ettari programmati sono stati raccolti oltre 450 mila quintali di pomodoro. Una quantità che sfiora l’1% del trasformato nazionale, pari a 55 milioni di quintali, ma di elevata qualità, certificata e identificata.
Quasi tutta la produzione regionale, per un quantitativo pari a 420 mila quintali, è stata conferita, per la trasformazione, all’unico stabilimento industriale: la Nuova Casar srl di Serramanna, che non è riuscita a collocarla sul mercato per via della concorrenza esercitata da altri stabilimenti conservieri nazionali e dalle importazioni di prodotto cinese.
Lavorazione di pomodori da conserva alla Nuova Casar di Serramanna
Lavorazione di pomodori da conserva alla Nuova Casar di Serramanna
Ventisei addetti fissi e 500 stagionali, la Nuova Casar vanta una struttura caratterizzata da una progredita tecnologia, ma che privilegia nella cernita l’insostituibile lavoro umano, in grado di lavorare 650 mila quintali di prodotto e di sviluppare un fatturato di 18 milioni di euro. Con la ristrutturazione in atto, lo stabilimento potrà trasformare 800 mila quintali di pomodoro. Tutto il prodotto lavorato, nelle tipologie pelati, polpe, passati e concentrati, viene certificato sotto il marchio Pai, Produzione agricola integrata della Sardegna, e commercializzato per il 67% nell’isola, per il 32% nella penisola (Lombardia, Sicilia e Puglia), per il restante 3% all’estero (dal Regno Unito all’Australia).
Per l’annata 2006, Arpos e Nuova Casar hanno sottoscritto un contratto di cessione del pomodoro da industria che prevede la messa a dimora di 300 ettari e il  conferimento di 200 mila quintali netti di prodotto, pari alla metà di quello lavorato lo scorso anno. Il prezzo medio, indistinto per le due varietà “Lungo” e “Tondo”, è stato fissato in 69,73 euro a tonnellata,  che andrà  integrato con il premio comunitario di 3,45 euro a quintale. 

Olio.La campagna 2004-2005 ha registrato un calo del 5% ma ha segnato un ulteriore record per quanto riguarda la qualità. L’Italia, che ha nell’olio il prodotto di punta della gastronomia, con il 25,30% di denominazioni Dop e Igp, è al vertice nell’elenco dei Paesi europei.
Con una produzione altalenante, pari al 2 -3% di quella nazionale, la Sardegna riesce a coprire appena il 50% del fabbisogno regionale. Da una media di 90 mila quintali degli anni novanta si è passati ai 55 mila quintali del 2005,  con una incidenza del 3% rispetto a quella nazionale.  Da qualche anno, la carta di identità del comparto olivicolo isolano incomincia però a subire delle modifiche: a un incremento di nuove realtà olivicole e delle produzioni si accompagnano una crescita della qualità e la comparsa sul mercato di aziende sempre più competitive. Al momento, sono 50 mila gli olivicoltori, 4 milioni le piante in produzione su una superficie di 42 mila ettari, tra promiscua e specializzata, 30 le varietà nostrane, tutte da proteggere. La produzione di olio oscilla tra 70 mila e 110 mila quintali all’anno, mentre supera i 40 mila quintali quella di olive da mensa. Una realtà che coinvolge 17 cooperative e 145 frantoi privati.
Cresce, come detto, la qualità degli oli extravergini, sempre più apprezzati e premiati nei vari concorsi oleari regionali e nazionali e ricercati da consumatori attenti e informati sulle caratteristiche organolettiche dei prodotti.
L’evoluzione del comparto è conseguente a una particolare attenzione della Regione, che ha messo in atto interventi, finanziari e operativi, tesi all’incremento di nuovi impianti, alla ristrutturazione di gran parte di quelli esistenti (in particolare nelle province di Nuoro e Sassari), al miglioramento e potenziamento tecnologico delle strutture di trasformazione (il 50% dei frantoi operanti sul territorio regionale hanno presentato istanza per migliorare le proprie strutture). Azioni che hanno agito da catalizzatori sui produttori, che si sono impegnati e si impegnano per raggiungere sempre più elevati risultati.
Appena 15 anni fa, erano pochissimi i produttori di olio extravergine di oliva che imbottigliavano. Oggi, sono numerose le aziende, ma anche le cooperative, che propongono i loro prodotti in confezione. Spesso si tratta di oli pregiati custoditi in eleganti bottiglie. Che, talvolta, riescono a spuntare prezzi anche competitivi. Questo non significa che il comparto abbia superato il lungo periodo di stasi.
Anzi, permangono e si accentuano le difficoltà proprio sul piano commerciale. «L’olio non è mai pagato quanto dovrebbe», dicono i produttori. Negli ultimi dieci anni, i prezzi alla produzione dell’olio extravergine di oliva hanno subito una contrazione del 33 per cento. Attualmente, un litro di olio extravergine sfuso viene pagato, alla produzione, poco più di 2 euro e riproposto, negli scaffali dei supermercati, a prezzi decisamente raddoppiati ma ancora accessibili. E, sempre più spesso, a prezzo accessibile corrispondono però prodotti non garantiti. Magari provenienti da altri Paesi più competitivi, perché maggiore è la produzione e minori sono i costi della manodopera.
Raccolta di olive nel Sassarese per la produzione di olio extravergine
Raccolta di olive nel Sassarese per la produzione
di olio extravergine
La stessa normativa commerciale non ha mai aiutato il consumatore, anzi lo ha sempre confuso con terminologie ambigue. Da qui la necessità di una serie di azioni per valorizzare un prodotto di qualità, come quello sardo, garantendo un valore aggiunto al produttore, e facilitarne la commercializzazione. Pensiamo alla certificazione, al riconoscimento di marchi d’origine, a studi di mercato.
Per gli oli extravergine di oliva sardi, i problemi legati alla valorizzazione e alla commercializzazione si chiamano “riconoscimento della Denominazione di origine protetta”. Entro dicembre 2006 anche la Sardegna potrà fregiarsi di questo importante riconoscimento comunitario, che consente di tutelare un prodotto strettamente collegato con le zone di produzione. I problemi si chiamano, poi, organizzazione della filiera olivicola: bisogna realizzare un collegamento diretto tra produzione e territorio, che sia in grado di generare suggestione, per reggere la concorrenza, soprattutto quella straniera, e incidere su fasce medie di mercato. «La strada più percorribile è forse quella dei consorzi», rimarca Tonino Selis dell’Ersat.
Unitamente al Consorzio interregionale per la frutticoltura di Cagliari e Oristano, l’Ersat  è impegnato a creare cultura della qualità tra gli stessi produttori: dalla sperimentazione, all’assistenza tecnica, ai corsi di degustazione per produttori  perché imparino a meglio conoscere i propri prodotti e a farli successivamente apprezzare dai consumatori, che devono, a loro volta, essere abituati a riconoscere una qualità, «supportata da criteri organolettici e da parametri chimico-fisici», precisa Selis.
Aprire, insomma, nuovi mercati. Gli apprezzamenti non mancano. I nostri oli extravergine di oliva, monovarietali o miscele varietali, puntualmente, partecipano a manifestazioni regionali, nazionali e internazionali, piazzandosi sempre ai primi posti. I riconoscimenti ottenuti in importanti concorsi, come quelli che si tengono ogni anno a Seneghe, Gonnosfanadiga e a Spoleto, ma anche in manifestazioni come il Vinitaly di Verona, il Sana di Bologna, Olivissima di Stoccarda, sono la dimostrazione che i prodotti sardi non temono la concorrenza. Basta saperli valorizzare. 

Olive da mensa.Negli ultimi anni è cresciuta la produzione delle olive da mensa, passata dagli 11.635 quintali del 2001 ai 42.237 quintali del 2004. Tre le imprese che trasformano, tutte in provincia di Cagliari: la Copar di Dolianova, la Cooperativa Santa Barbara ed una privata di Gonnosfanadiga.


Carciofo.Dopo le oscillazioni riscontrate di anno in anno, da addebitarsi principalmente alle ricorrenti stagioni siccitose, la produzione del carciofo ha registrato, nelle annate 2002-2003 e 2003-2004 un positivo recupero, favorendo così il ritorno degli agricoltori ad una coltura che, per reddito e superficie interessata, rappresenta, nelle buone annate, una delle voci essenziali della Plv agricola sarda.
Con una superficie coltivata di 12.902 ettari e 1.066.127 quintali raccolti nell’annata 2004-2005, la Sardegna si colloca al terzo posto a livello nazionale, dopo la Puglia e la Sicilia.
A causa delle bizze del tempo, caratterizzato da caldo eccessivo a settembre, da vento freddo a dicembre e da gelo sino alla fine del mese di gennaio e l’aggiunta di scarse precipitazioni, la produzione dell’annata 2005-2006 ha segnato una riduzione del 50 per cento rispetto allo scorso anno.
Al crollo della produzione si sono poi aggiunti quello dei prezzi e delle vendite. I pochi carciofi immessi sul mercato hanno spuntato infatti prezzi irrisori che sono invece saliti vertiginosamente una volta proposti al dettaglio. La conseguenza naturale è stato l’allontanamento del consumatore sardo dal prodotto locale e il suo orientamento all’acquisto di carciofi proposti a prezzi più accessibili provenienti da nuove zone di produzione, come la Grecia e l’Egitto, che stanno ormai invadendo e mettendo in seria difficoltà i mercati nazionali.
Nell’isola,  la coltivazione del carciofo riguarda il Medio Campidano (Samassi, Villasor, Serramanna, Serrenti, Nuraminis, Sanluri) e il basso Sulcis (Villarios, Giba): insieme interessano oltre il 60% del territorio regionale; la bassa valle del Coghinas (Valledoria) e la valle dei Giunchi (Ittiri e Uri) con il 27% di superficie interessata; l’oristanese (Simaxis, Zerfaliu) con il 10% del territorio regionale: Siniscola e Tortolì con appena lo 0,8 per cento.
Spinoso, Violetto di Provenza, Tema 2000, Terom e Romanesco sono le varietà più coltivate. Per il carciofo spinoso, che occupa il 75% dell’intera superficie investita, è stato avviato l’iter per il riconoscimento del marchio comunitario Dop.
Quasi il 25 per cento dell’intera produzione regionale, prevalentemente della varietà Violetto di Provenza, Spinoso e Terom, per una potenzialità di 70 milioni di capolini/anno nelle buone annate, viene destinata alla conservazione (al naturale, in salamoia e, principalmente, surgelata) e alla trasformazione (sott’oli, creme, sughi) a livello artigianale e agro-industriale. Le aziende che trasformano sono dislocate in prossimità delle zone di produzione. Tra le principali, la Campus di Barbara Congiu, la Conserve Alimentari di Piras e la Niscas di Salvatore Ena, di Decimoputzu, la Pomosarda di Dino Mudu di Samassi, la Green Gold di Ussaramanna.
Fase di lavorazione di carciofi nello stabilimento della Macar, a Villacidro
Fase di lavorazione di carciofi nello stabilimento della Macar, a Villacidro
Da circa due anni è nata, nella zona industriale di Villacidro, una nuova azienda per la lavorazione industriale del carciofo. Si tratta della Macar srl, della Macolive Group, specializzata nel semilavorato, che si propone come punto di riferimento e stimolo per i produttori di tutta l’isola. L’azien­da, che ha una potenzialità di trasformazione fino a 50 milioni di capolini a stagione, dispone di una zona di lavorazione e stoccaggio che si estende su 8 mila metri quadrati, con trenta macchine tornitrici, e di uno spazio esterno per l’ingresso e la prima scelta del prodotto in arrivo; si muove su sei linee di lavorazione: cuori di carciofo al naturale, surgelati, fermentati, in salamoia pesante (a lunga conservazione), marinati, refrigerati. Gli scarti, riciclati, verranno utilizzati per l’alimentazione animale.
La Macar, che lavora facendo utile e creando occupazione, garantisce lavoro a 120 lavoratori diretti: 10 fissi e 110 stagionali. «Questo è il punto di partenza – sostiene Francesco Elias Sanna, amministratore unico della società –. Il nostro obiettivo è quello di diversificare, arrivare a trasformare pomodori, peperoni, melanzane e zucchine; tutti prodotti legati al territorio. Un ulteriore obiettivo è quello di instaurare rapporti diretti con gli agricoltori, come sta già avvenendo, in modo da creare una simbiosi tra produttori e industria: i primi si sentiranno incentivati ad aumentare la superficie coltivata e la seconda potrà contare su materie prime di qualità e sulla quantità».
Proprio la ricerca di materie prime di qualità ha spinto la Macar a fare investimenti in campo agricolo, anche nel Basso Sulcis, precisamente nella zona di Porto Pino, zona particolarmente vocata per la coltivazione del carciofo.
I prodotti Macar raggiungono la penisola e il Nord Europa.  

Altri prodotti conservati.  Sono le zucchine, le melanzane, le cipolle, i carciofi e selvatici come cicoria, cardi e asparagi, proposti nella classificazione sott’olio, grigliati e ripieni. È soprattutto la Green Gold di Ussaramanna,  che, acquistato il know how dell’azienda Is Enas, si sta imponendo sul mercato isolano come la più avanzata azienda isolana impegnata nella trasformazione dei prodotti orticoli: oltre 1.300.000 pezzi, commercializzati con etichetta “Ricette di casa mia”. Ottenuta la certificazione del sistema qualitativo Iso 9002 (sia nazionale che internazionale), l’azienda si sta ora implementando al sistema Vision. La materia prima è di provenienza esclusivamente regionale; il metodo di conservazione è quello della pastorizzazione. Negli ultimi due anni, la Green Gold ha arricchito la gamma dei prodotti sott’olio con i porcini e le favette. Sono allo studio altre ricette di sott’oli vegetali, lumache e la linea frutta.
Un ulteriore prodotto di pregio che l’azienda di Ussaramanna sta facendo conoscere a consumatori esigenti è il tonno sott’olio. La materia prima utilizzata è il “Tonno di corsa” (ovvero quello adulto prossimo a depositare le uova), qualità Bluefin, ricercato per le gustose carni, pescato presso le tonnare di Carloforte e Portoscuso. «A parte le intrinseche caratteristiche di questo pesce, che è il primo e il più pregiato nella famiglia dei tunnidi, è la peculiarità dei processi di lavorazione messi a punto che rendono unico il prodotto», sottolinea il direttore commerciale, Alessio Dessalvi. Il tonno sott’olio è nato dalla sinergia tra la Green Gold e il Gruppo tonnare di Carloforte e Portoscuso, depositario di una esperienza nel settore risalente al 1654; conciliando quindi le tradizioni ataviche della pesca e della lavorazione artigianale del tonno nel rispetto delle vigenti normative igienico-sanitarie.
Facendo leva su una distribuzione capillare regionale, Green Gold colloca i suoi prodotti presso i negozi specializzati di tutto il Nord Italia e di Roma, dove lo scorso anno è stato registrato un notevole incremento, del Giappone, senza trascurare i rapporti con gli Usa, il Perù, Singapore, Hong Kong,la Francia, il Regno Unito, il Belgio, l’Olanda e la Germania.
Diciotto dipendenti, tra lo stabilimento di Ussaramanna e la sede amministrativa di Cagliari; il fatturato complessivo dell’azienda, che fino al 2003 era pari a 15 milioni di euro, nel giro di un biennio ha registrato un aumento del 15 per cento. 

Zucchero. Quella trascorsa è stata una stagione amara, anzi amarissima, per il comparto bieticolo saccarifero sardo: Lo zuccherificio di Villasor ha cessato l’attività e nell’isola è venuta meno la coltivazione delle barbabietole, causando la scomparsa di una delle  componenti fondamentali dell’economia regionale.
 Lo stabilimento saccarifero di Villasor ha una potenzialità di lavorazione giornaliera pari a 50 mila quintali.di barbabietole, quella complessiva è di 3 milioni di quintali, pari a una superficie a bietole di circa 7 mila; lo zucchero producibile indipendentemente dalle quote è di 400 mila quintali; le polpe surpressate producibili raggiungono circa i 600 mila quintali, mentre il melasso si attesta sugli 80 mila quintali.
La coltivazione della bietola interessa nell’isola 85 comuni: 49 nella provincia di Cagliari,  30 nella provincia di Oristano, 6 in quella di Sassari. Le aziende agricole sono circa 1.500. Le zone vocate e dotate di eventuale disponibilità irrigua che si possono investire a bietole, con la certezza della convenienza economica e della qualità, si estendono per circa 31 mila ettari che, in rotazione quadriennale, consentono un potenziale di 7.500-8.000 ettari annui  Il comparto, considerando tutto l’indotto, determina un volume d’affari di circa 50 milioni di euro e occupa 5.695 addetti, oltre ai 200 posti di lavoro stagionali. 
 Dal 1996, data dell’acquisto e della ristrutturazione dello zuccherificio da parte di imprenditori privati (Sadam Isz) e produttori attraverso Finbieticola, al 1999 gli ettari interessati alla coltivazione delle barbabietole erano saliti da 3.200 a 6.431; la produzione di 345 mila quintali di zucchero aveva consentito di coprire l’intero fabbisogno regionale. Dal 2000 al 2004 gli ettari coltivati sono passati da 5.025 a 1.805, con una produzione di zucchero pari a 108.661 quintali. Un drastico calo che ha fatto temere per la scomparsa della bieticoltura e dell’industria saccarifera.
La progressiva riduzione delle superfici coltivate è da imputare a tre fattori: la bassa remunerazione della coltura, la carenza perenne della risorsa idrica e gli alti costi per il conseguimento di una buona plv. Questi ultimi sono dovuti al fatto che nell’isola il 50% dei terreni coltivati sono condotti in affitto, i cui costi variano a seconda della coltura e raggiungono i 300-350 euro/ettaro se si coltivano bietole, ma anche ai variabili costi dell’acqua che incidono addirittura per il  40% sulla produzione. Dopo un lungo braccio di ferro tra le due società comproprietarie dello stabilimento, che vedeva Finbieticola intenzionata a non ricapitalizzare la Sadam, ma anzi decisa a mettere in liquidazione lo stabilimento, la vertenza si è conclusa nel migliore dei modi:  la Sadam Isz ha acquistato lo stabilimento e ha proseguito da sola nella conduzione aziendale. 

La campagna bieticola 2004-2005 era stata ufficialmente avviata in un rinnovato clima di speranza. La Regione aveva assicurato la disponibilità dell’acqua: 15 milioni di metri cubi, 12 milioni dei quali per la provincia di Cagliari, massimo polo di produzione isolano, ma anche un taglio netto ai costi, fissati a 370 euro per ettaro. E soprattutto una tariffa uguale per tutti i produttori, da nord al sud dell’isola indistintamente. Certezze che, con l’aumento della remunerazione salita di 45 centesimi a quintale, aveva indotto i produttori a sottoscrivere contratti di coltivazione. Le inclemenze del tempo hanno invece sconvolto i programmi: gli ettari seminati sono stati poco più di mille. 

Coltivazione di zafferano nelle campagne di Turri
Coltivazione di zafferano
nelle campagne di Turri
Zafferano
. Dopo un periodo di crisi, dovuto principalmente agli alti costi della manodopera ancora completamente manuale (le diverse fasi per arrivare al prodotto finito per un chilo di zafferano necessitano di 400 ore lavorative) e alla concorrenza del mercato estero, si assiste oggi a un rinnovato interesse per la sua coltivazione, anche per l’elevato potenziale economico. Non a caso, lo zafferano è anche conosciuto con l’appellativo di “Oro rosso”.
In Sardegna, dove è stato introdotto intorno al 1500, lo zafferano è ormai diventato una coltivazione di nicchia che ambisce ad un ruolo di punta nel mercato. Se è vero che rispetto alla superficie utilizzata e alla produzione mondiale di zafferano l’isola occupa un posto irrilevante, è altrettanto vero che in ambito nazionale la Sardegna è la regione leader, arrivando a produrre circa 1’80% dell’intera produzione italiana.
Attualmente sono 37 gli ettari coltivati a zafferano, in particolare a San Gavino Monreale, Turri, Villanovafranca ma anche a Muravera, nel Sulcis, nell’oristanese e in Gallura. C’è però ragione di credere che la superficie destinata alla sua coltivazione sia destinata ad aumentare, grazie ai sostegni economici previsti dal Piano operativo regionale. L’attenzione verso la coltivazione dello zafferano è rappresentata anche dalla recente approvazione del progetto Interreg 3 C Sud, che coinvolge paesi come Italia, Spagna e Grecia. L’obiettivo è quello di arrivare a predisporre un “Libro bianco” sulla coltivazione della specie in Europa. Nel nostro Paese, il coordinamento è affidato all’Ersat.
La produzione media regionale è di 350 kg di stimmi (zafferano in fili); il prezzo di mercato oscilla dai 5 ai 7 euro il grammo, mentre il fatturato raggiunge 1,8 milioni di euro.
Per valorizzare e difendere dalle contraffazioni un prodotto diventato ormai ambasciatore dell’isola attraverso la partecipazione dei produttori alle più importanti manifestazioni fieristiche nazionali, è stata chiesta all’Unione europea la denominazione di origine protetta.

Miele.Il patrimonio apistico isolano, presente su quasi tutto il territorio, è riconducibile a 60 mila alveari razionali, condotti da 2.200 apicoltori, e così distribuiti: 46% in provincia di Cagliari, 29% in quella di Nuoro, 17% in provincia di Sassari e 8% in quella di Oristano. Nelle buone annate, garantiscono una produzione totale di 16 mila quintali di miele ed un fatturato di circa 7,5 milioni di euro.
Considerata l’attuale crescente domanda di mieli di alta caratterizzazione botanica, l’isola, per il suo clima favorevole e per la presenza di una agricoltura pulita ed estensiva, che non fa uso massiccio di pesticidi, e di numerose specie nettarifere di pregio, offre consistenti possibilità di sviluppo del comparto. Il miele sardo, infatti, si conferma uno dei migliori non solo per le qualità organolettiche, ma anche per la salubrità del prodotto.
Apicoltore nelle campagne di Decimomannu
Apicoltore nelle campagne di Decimomannu
Caratteristiche tutelate anche da un recente provvedimento. Il 10 agosto 2004 è entrato in vigore, in Italia, il decreto legislativo che recepisce la direttiva comunitaria sulla commercializzazione e produzione del miele. La norma chiarisce la definizione di miele, da che cosa origina, dove è possibile trovarlo e ne rimarca le caratteristiche di alimento puro, privo di additivi o altro. Con il nuovo decreto, il consumatore, attraverso una serie di informazioni, potrà verificare la provenienza e la genuinità del prodotto. Sull’etichetta dovrà essere indicato il Paese, ma anche la Regione o il Comune, dove il miele è stato prodotto; l’origine floreale o vegetale; le caratteristiche dei vari tipi con la definizione dei parametri chimico-fisici; la data entro la quale deve essere consumato. Se il miele proviene da diversi paesi europei, sulla etichetta appare la scritta “miscela di mieli originari della Ce”; se il miele è raccolto in paesi extracomunitari, si legge “miscela di mieli non originari della Ce”.
Lo sviluppo del settore è legato anche una legge, attesa da 80 anni, e approvata, in via definitiva, lo scorso 13 dicembre dalla Commissione agricoltura della Camera. Si tratta della legge quadro per la “Difesa dell’apicoltura”, che riconosce finalmente il ruolo dell’apicoltura quale “attività di interesse nazionale”, indispensabile per la conservazione dell’ambiente e per l’impollinazione delle piante selvatiche e coltivate. Il nuovo provvedimento, che consentirà di accedere a risorse finanziarie per le annualità dal 2004 al 2006, definisce diversi aspetti di rilievo. Tra questi, l’enunciazione della natura agricola di tutti i prodotti derivati dell’alveare (pappa reale, polline, propoli, veleno d’api, idromele e aceto di miele), riconoscimento sino ad oggi limitato al miele e alla cera d’api; l’incentivazione della pratica del nomadismo al fine di un adeguato sfruttamento delle risorse nettarifere; l’inquadramento dell’attività di impollinazione quale attività agricola connessa.
L’elenco aggiornato dei prodotti italiani agroalimentari tradizionali recentemente aggiornato dal ministero per le Politiche agricole e forestali comprende sei tipi di miele di Sardegna: miele di cardo selvatico, miele di asfodelo, miele di corbezzolo, miele di castagno, miele di eucalipto e miele di rosmarino. 

Liquore di mirto. Il liquore tipico di mirto, una volta amato soprattutto nell’isola, è sempre più apprezzato e richiesto dai mercati nazionali e internazionali. E sempre più sta conquistando spazi commerciali. Prodotto da una ventina di industrie liquoristiche sarde, che mettono in commercio 5 milioni di bottiglie , muove un fatturato che sfiora i 20 milioni di euro.
Particolare di una pianta di mirto sardo
Particolare di una pianta di mirto sardo
Nelle buone annate, dall’inizio del mese di dicembre alla fine di gennaio, centinaia di raccoglitori, sparsi per tutta l’isola, garantiscono alle più importanti industrie di trasformazione 400 mila chili di bacche di mirto. Riuniti nell’associazione “Flora spontanea”, gli 800 raccoglitori riconosciuti, che possono contare su un guadagno complessivo che sfiora gli 800 mila euro, profondamente convinti che «solo i frutti grossi e succosi provenienti da piante spontanee sono in grado di garantire qualità e tipicità», contestano l’incentivazione della coltivazione del mirto. Nell’isola, grazie a ricerche scientifiche e ad un particolare lavoro di selezione svolto da ricercatori dell’Università di Sassari e del Cras, sono state individuate sette varietà di mirto particolarmente adatte ad essere coltivate. Si tratta di cultivar con produttività medio-elevata (da 1 kg a 1,5 kg di frutti per pianta). Con l’utilizzo di successivi finanziamenti concessi dal Programma operativo regionale, è stato possibile mettere a dimora oltre 50 ettari di mirto che potranno garantire una produzione media di un milione e 250 mila chili di bacche.
Prospera il mirto, aumenta il successo del liquore, cresce la qualità ma proliferano anche i tentativi di imitazione. Sono cinque milioni le bottiglie immesse sul mercato ogni anno, ma solamente 2.450.650 escono dagli stabilimenti delle tre aziende che aderiscono all’Associazione produttori Mirto di Sardegna: Zedda-Piras, Rau e Sa Bresca Dorada. Ci riferiamo a un organismo nato nel 1994 con lo scopo di valorizzare e tutelare il liquore Mirto di Sardegna tradizionale ottenuto dall’infusione idroalcolica di bacche di mirto sardo, che si distingue per questa sua caratteristica rispetto ai liquori prodotti con metodi non naturali, che prevedono l’aggiunta di aromi artificiali che sostituiscono l’impiego della bacca selvatica. «La produzione legata a questi metodi alternativi, sicuramente più veloci ed economici, rappresenta un pericolo per il consumatore che non è in grado di identificare l’origine e le caratteristiche del prodotto», evidenziano i dirigenti dell’Associazione.
Dotato di un regolamento interno e di uno statuto, l’organismo ammette come soci solo imprese con stabilimento di produzione e confezionamento del prodotto sito in Sardegna, che seguono un rigoroso disciplinare di produzione e che, una volta superati i controlli sulla conformità del prodotto, possono apporre sul collo delle bottiglie una fascetta recante il marchio di qualità. Quest’ultimo, garantendo l’origine della materia prima e il metodo di produzione utilizzato dalle aziende associate, tutela il consumatore sull’origine sarda delle bacche di mirto e del miele eventualmente utilizzato nella ricetta e sulla residenzialità sarda di tutta la filiera del liquore fino all’imbottigliamento. Inoltre, vieta la colorazione e l’utilizzo di additivi e aromi di qualsiasi tipo.
Sistema di autocontrollo Haccp e Certificazione di qualità secondo le norme Iso 9000, sono ulteriori azioni portate avanti dall’associazione finalizzate al raggiungimento del riconoscimento del prodotto in sede comunitaria. E questo nonostante la normativa, allo stato attuale, non preveda l’inserimento del Liquore di Mirto nella lista delle sostanze spiritose riconosciute a livello comunitario. Prevede, però, le sostanze spiritose di frutta al ginepro. L’Associazione, con il supporto della Confindustria regionale e di Federvini, ha sottoposto alla Commissione europea preposta la richiesta di modifica al Regolamento Ce 1576/89, che stabilisce le regole generali relative alla definizione, alla designazione e alla presentazione delle bevande spiritose e ha il fine di riservare a determinati prodotti l’impiego di denominazioni di natura geografica, con lo scopo di garantire l’informazione del consumatore circa la provenienza di un prodotto caratterizzato dalle materie prime impiegate o da particolari procedimenti di elaborazione.
Nel 2000 il Liquore Mirto di Sardegna è stato inserito tra i Prodotti tradizionali riconosciuti dal decreto legislativo 173/98; nel dicembre del 2004 ha ottenuto la certificazione di prodotto conforme allo standard Dtp 073 – disciplinare tecnico per la certificazione per la conformità di prodotto del Liquore Mirto di Sardegna tradizionale – nel rispetto dei seguenti requisiti: provenienza delle bacche dal territorio amministrativo della Regione Sardegna; assenza di aromi e coloranti.
Sempre nell’ambito della produzione di liquori a base di mirto, è da segnalare la recente presentazione, da parte delle Cantine Argiolas di Serdiana, di “Mirse”, un liquore ma anche un amaro, un aperitivo ma, soprattutto, un digestivo che assomma le caratteristiche organolettiche e stimolanti dei suoi ingredienti: bacche di mirto, spezie ed erbe aromatiche della macchia mediterranea. "Mirse" è prodotto e imbottigliato nella distilleria Tremontis di Paulilatino (località Benalonga), di proprietà della famiglia Argiolas. La prima produzione, di 20 mila bottiglie, è destinata ai consumatori sardi e della penisola.
 

Produzione biologica.È un momento di riflessione quello che sta vivendo il settore biologico: il numero delle aziende agro-zootecniche biologiche è in calo e si accentua il divario tra l’anello agricolo della filiera e il mercato vero e proprio. Che, invece, continua a crescere grazie allo sviluppo di nuovi canali di vendita, quali la moderna distribuzione, la vendita diretta e la ristorazione agrituristica.
Dalla elaborazione Sinab (Sistema di informazione nazionale sull’agricoltura biologica) sui dati forniti dagli organismi di controllo operanti in Italia al 31 dicembre 2004, risulta che gli operatori del settore sono passati dai 55.902 del 2002 ai 40.965 del 2004.
Sicilia, Calabria ed Emilia Romagna sono le regioni con maggior presenza di aziende biologiche. A seguito della decisa contrazione, nell’ultimo biennio, delle aziende iscritte all’elenco regionale e della superficie controllata dagli organismi competenti, la Sardegna perde la leadership. Secondo l’Ersat, per evidenziare i termini della contrazione del fenomeno è sufficiente comparare il dato del 31.12.2000 (oltre 8.300 aziende che operavano su una Sau di circa 250 mila ettari) con quello al 30 giugno 2004 ( 3.650 aziende notificate per una superficie di circa 123 mila ettari). Sempre secondo i dati forniti dall’Ersat, l’indirizzo produttivo principale è quello foraggero-zootecnico (970 aziende notificate, 93 mila ettari di superficie, 1.390 unità di bestiame adulto (Uba) che interessa oltre il 65% delle aziende aderenti. Tra gli altri settori, assume interesse economico l’ortofrutticoltura (280 aziende) che registra anche la costituzione di una organizzazione di produttori con sede a Sestu, in grado di alimentare un’interessante corrente di esportazione. A livello statistico, assume interesse l’olivicoltura (2.230 ettari, circa 420 aziende), la cerealicoltura (5.500 ettari, circa 650 aziende) e la viticoltura (1.100 ettari,  41 aziende).
Dall’ elaborazione fatta dal Sinab risulta che gli operatori controllati al 31 dicembre 2004 sono calati a 1.831.
Nell’isola sono presenti e operanti l0 punti vendita specializzati, ma non è difficile reperire i prodotti bio anche sugli scaffali della grande distribuzione organizzata, che propone persino prodotti biologici provenienti da altre regioni italiane. «Dal punto di vista economico – precisa Gianni Ibba, dirigente dell’Ersat –, il comparto è sottodimensionato poiché fattura attualmente poco più di 35 milioni di euro e i licenziatari (cioè coloro che utilizzano la certificazione di prodotto) sono solo 1.100».
«La contrazione delle aziende e delle superfici – prosegue Ibba – si motiva con il fatto che, in questi anni, è prevalso il concetto di agricoltura biologica come fonte di aiuti al reddito concessi dalla Comunità europea; la maggior parte delle aziende (circa l’80 per cento) che hanno aderito a questo metodo erano ad indirizzo zootecnico per cui, non essendo stato emanato il regolamento europeo che disciplina le produzioni zootecniche, si limitavano ad effettuare le pratiche colturali in biologico».
«Per contro – spiega, dal canto suo, Gaetano Pala, responsabile dell’ufficio studi della Federazione regionale della Coldiretti. – , chi effettivamente produceva per il mercato non è riuscito ad avviare un processo di valorizzazione delle produzioni e a mettere il consumatore in grado di reperirle».
Le cause sono le stesse che, in Sardegna, limitano lo sviluppo di altri comparti dell’agricoltura convenzionale: carenza di strutture, frammentarietà della produzione, mancanza di programmazione, acuite però dal fatto che si è in presenza di un nuovo settore e che la produzione biologica è trenta volte inferiore a quella convenzionale. Senza dimenticare che in Sardegna quest’ultima viene ottenuta con tecniche colturali che pure limitano l’uso di prodotti di sintesi, gradita quindi ai consumatori.
La conseguenza è che il valore dei prodotti biologici (oli extra vergine di oliva, formaggi, vini, orticoli vari) non è apparso chiaro ai consumatori e il loro costo è stato ed è tuttora percepito come eccessivo. Pur essendo portatori di un elevato livello di qualità e di genuinità, anche sotto l’aspetto salutistico, i prodotti biologici sardi hanno avuto così una scarsa penetrazione nei circuiti di mercato, mentre è stato sottovalutato l’aspetto di valorizzazione dell’offerta connessa all’attuazione dei metodi dell’agricoltura.
«È necessario creare nuovo interesse sul comparto da parte dell’imprenditoria agricola sarda – conclude Gianni Ibba  –, concentrando l’attenzione più sugli aspetti di mercato che sulla effettiva possibilità di integrazione al reddito derivabile dagli aiuti comunitari. Partendo da una situazione oggettivamente favorevole in termini di superficie agricola convertita e convertibile ai metodi dell’agricoltura biologica, è ora necessario completare il processo di certificazione della filiera produttiva, al fine di favorire una maggiore diffusione di prodotti certificati sui mercati dell’Italia settentrionale e del nord Europa, particolarmente attenti e interessati a tali tipologie di prodotto». 

Agriturismo.Continua a crescere l’agriturismo sardo. Gli ultimi dati disponibili parlano infatti di oltre 600 aziende agrituristiche attive, che vengono frequentate da una utenza interessata sia alla ristorazione che all’ospitalità e al tempo libero. E le previsioni sono per un ulteriore allargamento del settore. È la conferma che il mondo rurale si presenta particolarmente adeguato alle esigenze della domanda turistica: entrare in comunione con il territorio e le sue vocazioni.
Area di eccellenza particolare è il sassarese che, potendo contare sui flussi turistici legati alla Costa Smeralda, gode di una situazione privilegiata. Dallo scorso anno, l’offerta è ben sviluppata anche in provincia di Nuoro.
Nonostante la continua evoluzione, anche l’agriturismo sta imparando a fare i conti con l’incertezza. La tendenza che si va consolidando, in linea con una crisi generale del turismo, è quella di abbreviare la durata dei soggiorni, magari sommando più pause nell’arco dell’anno. Inoltre, le varie strutture oggi debbono fare i conti con una richiesta sempre maggiore di qualità e con una diversificazione delle offerte. Tutto questo richiede un’attenzione particolare sia verso la qualità dell’offerta, sia verso una politica dei prezzi più attenta e coerente. Un contributo in tal senso viene offerto dalle tre organizzazioni agrituristiche che operano sul territorio: Terranostra, Turismo Verde e Agriturist, che fanno capo rispettivamente alla Coldiretti, alla Confederazione Italiana Agricoltori e alla Confagricoltura, anche attraverso la realizzazione di guide, contenenti indicazioni sull’azienda agrituristica, su quella agricola e sui prezzi, o di un portale regionale che renda possibile prenotare on line la propria vacanza. Anche l’assessorato regionale dell’Agricoltura sta riservando al comparto una particolare attenzione. Se la differenza tra le varie strutture oggi è determinata dalla qualità, si rende necessario procedere ad una classificazione delle aziende, attribuendo un numero di spighe (da 3 a 5) in funzione dei servizi offerti e della tipicità. A questo proposito, l’Assessorato ha predisposto ed inviato a tutti gli operatori agrituristici una scheda descrittiva dell’azienda al fine di monitorare la situazione esistente ed avere un quadro esauriente della tipologia dei servizi offerti.
«Il monitoraggio – spiega Elisabetta Mosino, responsabile del settore “Diversificazione attività agricole” dell’Assessorato – è propedeutico alla formazione di un comitato, del quale faranno parte anche le organizzazioni professionali agricole e l’Ersat, che avrà il compito di individuare una griglia di qualità sulla base di parametri attraverso i quali, tenuto conto della situazione esistente, si dovrà procedere alla classificazione delle aziende».
Non mancano poi i sostegni economici all’incentivazione dell’attività agrituristica. Nel 2003 è stata attivata la misura “Diversificazione delle attività agricole e affini” del Programma operativo regionale 2000/2006, che sostiene lo sviluppo dei territori rurali attraverso la diversificazione delle attività svolte nelle aziende agricole, favorendo la creazione di fonti di reddito alternative e complementari a quello agricolo. La misura è articolata in due linee di intervento: Attività agrituristica e Realizzazione e recupero di piccoli impianti di trasformazione e commercializzazione delle produzioni tradizionali e tipiche. La dotazione finanziaria pubblica per il periodo 2000-2006 è di  27 milioni di euro. «Ma il fabbisogno finanziario rilevato dai Servizi ripartimentali dell’Agricoltura sulla base delle domande presentate dagli utenti (749 di cui 680 ritenute idonee) – sottolinea Elisabetta Mosino – risulta essere nettamente superiore. Con le risorse stanziate in occasione del primo bando rimane insoddisfatto il 45% circa del fabbisogno; pertanto, l’Assessorato sta valutando l’opportunità di non procedere a un nuovo bando ma di portare a esaurimento la graduatoria esistente».
Dall’attività agrituristica si differenziano notevolmente due nuove forme di ospitalità. Ci riferiamo al Bed & Breakfast e al turismo rurale. Il B&B, o albergo diffuso, offre esclusivamente il servizio di letto e prima colazione; può essere esercitato, a seguito di autorizzazione comunale, da chiunque sia in possesso di un’abitazione con l’abitabilità e gli impianti a norma. Possono essere adibite al servizio al massimo tre camere, con un massimo di sei posti letto e con almeno un bagno completo di tutti i servizi. La colazione deve essere servita con cibi confezionati.
Il turismo rurale, regolato come il B&B dalla legge regionale 27/98, riguarda attività di ricezione, ristorazione ed organizzazione del tempo libero, offerte in fabbricati rurali ubicati in zone agricole; i piatti devono essere quelli tipici del territorio. L’attività di turismo rurale può essere esercitata da gestori di strutture ricettive alberghiere e di ristorazione o di servizi legati al tempo libero, iscritti alla Camera di commercio.