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Vacilla il sostegno dell’agroalimentare sardo

 

Analisi del fieno in una stalla per capi vaccini della 3A Latte Arborea
Analisi del fieno in una stalla
per capi vaccini della società
coop.va 3A Latte Arborea
Da solo l’intero comparto zootecnico sardo contribuisce a formare il 44,8% della produzione complessiva vendibile agricola regionale. Alla formazione di questa importante percentuale  hanno sempre concorso le 16 mila aziende in cui si allevano ovini e caprini.
Oggi il comparto sta vivendo una situazione di estrema difficoltà che è diventata strutturale. Squilibrio tra domanda e offerta, aumento dei costi di produzione,  crescente pressione competitiva dei paesi terzi hanno determinato una  crisi dell’attività di allevamento che pare senza ritorno. Abbandono dell’attività, effetti del disaccoppiamento, crescenti costi dei mezzi tecnici utilizzati per la produzione (mangimi rincarati del 30-35%, i carburanti del 25%, i concimi del 40%) sono la causa della riduzione del numero delle aziende ovicaprine e della conseguente diminuzione della produzione di latte e di formaggi che non fanno ben sperare per il futuro. Difficoltà a movimentare e quindi a vendere sui mercati fuori dall’isola i vitelli da ingrasso per via dei protocolli di vaccinazione severi e rigorosi,  conseguente offerta speculativa al ribasso sui prezzi dei bovini da parte degli acquirenti continentali che ha indebolito il ruolo degli allevatori nella contrattazione, hanno   portato quasi  al collasso un comparto in forte sofferenza.
Con un patrimonio di 3,4 milioni di capi ovini, 2,5 dei quali rappresentati da pecore adulte,  (dati Agea 2007 e Osservatorio Coldiretti) e 210 mila  caprini,  il comparto ovicaprino  rappresenta  il 41% per cento del patrimonio nazionale.  Per quanto riguarda i bovini, il numero dei capi ha subito una contrazione, passando da 292.092 a 265.904. Seguono  246.934 suini, 929 bufalini, 1.168.712 avicunicoli (ma il numero dei capi si riferisce solo a quelli registrati dai servizi veterinari e potrebbe rappresentare meno del 60% della consistenza reale del comparto ) e 585 struzzi.

Carni - Le produzioni principali, con un valore stimato in 390 milioni di euro, rappresentano il 23,7% del valore delle produzioni zootecniche sarde.  Da quando, nel 2000, ha fatto la sua comparsa la bluetongue il mercato delle carni nell’isola  è in continuo mutamento. Oggi, però, a condizionare il consumo è il portafoglio sempre più leggero che costringe il consumatore spesso a ridurre gli acquisti di carni rosse  e  sempre più a orientarsi verso quelle bianche. 
I consumi pro-capite annui sono stimati attorno ai 50-60 chilogrammi.  La produzione regionale  copre il 40% dei consumi interni, stimati in 600 mila tonnellate, e l’isola è costretta ad importare il 60% del proprio fabbisogno. 

Carne bovina -
 Secondo dati forniti da Coldiretti regionale,  i capi bovini  sono 265.904, allevati in 6.954 aziende, per una media di 38 capi per azienda,  così suddivisi: 80 mila capi di età inferiore a un anno; circa 36 mila di età compresa da 1 a 2 anni; circa 148 mila oltre i due anni (manze, vacche e tori) di cui 34 mila vacche da latte. Più della metà, per l’esattezza 169 mila capi, è rappresentata da razze bovine orientate verso la produzione di carne. La maggior parte è concentrata nei distretti di Sassari (32%), Olbia (20%), Nuoro (18%), Lanusei (8%), Cagliari (7%), Oristano (7%), Sanluri (5%), Carbonia (3%). Si tratta di allevamenti allo stato semibrado, legati alla stagionalità; componente che, unitamente ai rincari dei costi di produzione, fa oscillare i dati sulla effettiva produzione di carne.  Ogni anno si macellano, mediamente, 80 mila bovini ma la produzione locale copre meno della metà del fabbisogno. Secondo Coldiretti e Ismea, nel 2007 i consumi di carni bovine hanno registrato una contrazione del 4,2 per cento. Con  un fatturato medio  di 134,4 milioni di euro, il comparto rappresenta il 18% del valore delle produzioni zootecniche dell’isola.
 Come gli altri comparti, anche quello del bovino da carne sta attraversando momenti difficili. Da anni, gli allevatori devono fronteggiare un progressivo aggravio dei conti aziendali a causa del forte aumento di costi di produzione. Il comparto appare poi disaggregato nei confronti delle strategie commerciali, della concentrazione delle produzioni e della loro valorizzazione. Cresce quindi la dipendenza dalle importazioni provenienti dalla penisola e dall’estero.
 La filiera dei bovini da carne, specializzatasi nel Nord Sardegna, si regge quasi esclusivamente sulla vendita dei vitelli da ristallo (circa 6 mesi di vita e un peso che va dai 230 ai 250 chilogrammi) ai centri d’ingrasso della penisola, un mercato un tempo florido con l’export di 60 mila vitelli l’anno venduti anche a 1 milione e 200 mila lire.  Con l’arrivo della lingua blu, tutto è cambiato. I bovini  non muoiono per la blue tongue ma essendo portatori sani, per saltare il mare devono essere vaccinati. Non solo, gli allevatori devono rispettare i tempi imposti dal protocollo vaccinale e se prima del 2000 i vitelli potevano essere  movimentati e imbarcati per i centri di ingrasso quando avevano 6-7 mesi, con l’arrivo della lingua blu stazionano nelle stalle anche per 13-14 mesi.
Il blocco della movimentazione, oltre a esporre gli allevatori a notevoli spese per alimentare i vitelli che non possono prendere la via del mare, ha anche indebolito il ruolo degli allevatori nella contrattazione, dal momento che ha determinato un’offerta speculativa del prezzo dei bovini e assicurato margini superiori agli intermediari. Gli effetti sono stati una forte contrazione degli sbocchi commerciali (si stima una contrazione del 50%); a motivo dell’inadeguatezza delle strutture di allevamento e di macellazione locali, i capi non hanno trovato mercato o non sono stati sufficientemente remunerati.  Nonostante le difficoltà operative che si affrontano nel garantire qualità e rintracciabilità per la carne bovina, a sostegno dell’intera filiera produttiva e a garanzia della sicurezza alimentare per i consumatori operano Consorzi di produttori che hanno avviato progetti che prevedono sistemi di etichettatura delle carni bovine. Con  il coinvolgimento di tutti i soggetti della filiera – dagli allevatori ai macelli, dai lavoratori di sezionamento fino ai rivenditori – effettuano un controllo diretto di tutte le fasi di produzione. In questo modo, il consumatore finale è in grado di avere tutte le informazioni sui soggetti coinvolti e, soprattutto, sui capi in vendita. Sono inoltre presenti cinque Op (organizzazioni di produttori), alle quali aderiscono 360 soci che allevano 6 mila fattrici e garantiscono una produzione annua che si attesta mediamente attorno al 6% della produzione regionale. Sono: il Consorzio produttori carne bovina della Gallura, il Consorzio del Bue Rosso (Montiferru), il Consorzio dei produttori delle razze bovine Rustiche delle aree del Gennargentu, la Società cooperativa consortile della Melina (Alto Oristanese), la Società cooperativa allevatori di Seneghe.

Carne ovicaprina - Secondo dati Agea e dell’Osservatorio sui costi di produzione di Coldiretti regionale,  tra il 2007 e il 2008  la situazione del comparto si è così modificata: 3,4 milioni gli ovicaprini allevati,  2,5 le pecore adulte, 210 mila i caprini,  16 mila le aziende ovicaprine.
Il comparto incide  in valore sulla plv agricola regionale per il 24 per cento. La produzione di carne incide per il 18,3% sulla produzione zootecnica isolana, per un valore pari a 75 milioni di euro (di cui 35 milioni al produttore) contro i 450 milioni  di euro a livello nazionale   Il 93% del totale è rappresentato per la maggior parte da agnelli, mentre un 7% è costituito da pecore.  Ogni anno si producono nell’isola 1,6 milioni agnelli,  dei quali 1,2 milioni vengono macellati in Sardegna, 1,3 milioni venduti ogni anno entro dicembre ai quali se ne aggiungono 300 mila venduti nel periodo pasquale.  Si stima che la vendita degli agnelli,  rappresenti il 25 per cento del fatturato per le aziende ovine sarde. Il 60 per cento dell’intera  produzione  finisce oltre Tirreno, il restante 40 per cento viene consumato nell’isola. I  canali commerciali sono rappresentati per il 65% dalla Grande distribuzione e per il 35% da altri canali, come le macellerie. Considerato che il livello medio dei consumi di carne pro-capite si attesta sui 7-8 kg, contro i 2 kg a livello nazionale, e che il 50% dei capi ovini macellati viene esportato nel Nord Italia, in Grecia, in Spagna e in Sudafrica, ne deriva che il mercato locale assorbe l’altro 50 per cento. Proprio quest’ultimo è fortemente minacciato dall’invasione di carni di agnello provenienti dalla Polonia e dalla Romania e offerte, dissimulatamente, come carni sarde ma a prezzi inferiori, nonostante quello delle carni locali sia rimasto quasi immutato. Chi, invece, assiste ad un’erosione continua del prezzo delle carni è l’allevatore. Il prezzo offerto per l’acquisto degli agnelli diminuisce notevolmente. Nel 2008,  per un chilo di agnello a peso vivo i macellatori hanno pagato da 3 a 3,50 euro; nel 2007 l’offerta è scesa addirittura a 2 euro. Considerato che in Sardegna gli agnelli vengono macellati quando raggiungono i  7-10 kg, gli allevatori hanno intascato appena 15/20 euro a capo.
Dal 2005, la carne di agnello sardo può fregiarsi della Indicazione geografica protetta. Una certificazione che mette al riparo dalla concorrenza sleale, alla quale hanno aderito poco più di un migliaio di aziende, una porzione limitatissima del panorama sardo. Ogni anno vengono macellati e immessi sul mercato 200 mila agnelli certificati.  Il marchio comunitario “Agnello di Sardegna” è riservato esclusivamente agli agnelli nati, allevati e macellati in Sardegna in regola con le norme dettate dal disciplinare di produzione e di identificazione. Gli agnelli debbono provenire da pecore di razza sarda, essere allevati allo stato brado, in un ambiente del tutto naturale, caratterizzato da ampi spazi esposti a forte insolazione, ai venti e al clima della Sardegna e nutriti prevalentemente con latte materno. A controllare sull’applicazione del disciplinare di produzione provvede il Consorzio di tutela con sede a Nuoro. 

Carne suina
. Secondo i dati Istat, la consistenza del patrimonio suinicolo isolano è di 247 mila capi, di cui 90 mila scrofe, così suddiviso: il 18,6% provincia di Sassari, il 10,1% in quella della Gallura, l’8,9% in provincia di Nuoro, l’11,7% in quella di Ogliastra, l’11% in provincia di Oristano, il 21,4% nel Medio Campidano, il 2,5% nella provincia del Sulcis-Iglesiente e il 15% in provincia di Cagliari. L’allevamento viene esercitato, quasi per intero allo stato brado, da 19.055 aziende, con una media di 13 capi per azienda, posizionate in collina e in collina litoranea, ma anche in pianura ed in montagna.
 Le aziende sono così distribuite: 4.617 in provincia di Sassari, 2.085 nella provincia della Gallura, 2.515 in provincia di Nuoro, 2.759 in quella dell’Ogliastra, 3.251 in provincia di Oristano, 586 nella provincia del Medio Campidano, 759 nella provincia del Sulcis- Iglesiente e 2.483 in quella di Cagliari. L’indirizzo produttivo è orientato prevalentemente alla produzione del suinetto da latte, del peso di 5-6 kg da destinare al consumo alimentare; la maggior parte delle aziende alleva lattonzoli (6-10 kg, una piccolissima percentuale alleva magroni (90-110 kg) che finiscono nei banchi delle macellerie, solo in pochissime zone del Gennargentu si allevano suini pesanti (140-160 kg). 
I problemi del comparto si chiamano peste suina africana, trichinellosi e concorrenza di capi provenienti dall’estero. La peste suina, arrivata nell’isola nel 1978, nonostante gli sforzi fatti per sradicarla, continua a rappresentare un’emergenza: riesplode periodicamente e restrizioni, cordoni sanitari rigidi con divieti di movimentazione degli animali ai macelli e del commercio di suini vivi, carni e prodotti derivati verso le restanti regioni italiane e gli altri Paesi europei, fanno piombare in una profonda crisi gli allevatori, imprese di macellazione e commercianti di carni.
Il secondo, che agita da tempo il settore del commercio, riguarda l’arrivo di capi provenienti dalla penisola e dall’estero. Una concorrenza che spinge i nostri allevatori a vendere il loro prodotto a prezzi inferiori al valore reale. Carne che, se opportunamente garantita attraverso tracciabilità e certificazione, metterebbe produttori e consumatori al riparo da truffe e contraffazioni di prodotti tipici locali. Con fondi stanziati dalla Giunta regionale, si sta realizzando un  allevamento  sperimentale di suini di razza sarda, finalizzato alla salvaguardia del suino di Tipo genetico autoctono, alla caratterizzazione e alla valorizzazione dei prodotti tipici della salumeria tradizionale della Sardegna. Il ministero delle Politiche agricole e forestali ha inserito gli allevamenti sardi nell’elenco speciale dei suini di Tipo genetico autoctono (Tga), i più antichi del Mediterraneo, insieme alla Cinta senese, alla Mora romagnola, al Nero Siciliano, alla Casertana e alla Calabrese. Nell’isola opera anche il Consorzio per la tutela del suino sardo.
In Sardegna, in un anno vengono consumati mediamente 500 mila quintali di carne suina (circa 32 kg pro capite), il 35% dei quali sotto forma di prodotti trasformati. Le produzioni sarde coprono appena il 50% del fabbisogno. Il valore della produzione di carne sarda  incide per circa l’11% sul totale delle produzioni zootecniche alimentari e per il 24% sulla produzione di carne regionale. Il numero delle strutture di prima lavorazione, mattatoi pubblici e privati, è pari a 74, mentre le aziende dedite alla produzione di salumi tipici locali sono 64 tra industriali e artigianali, la maggior parte delle quali operano nelle province di Sassari e Nuoro.  La quantità di salumi prodotti, (salsicce, altri salumi e prosciutti) si  attestata sui 54 mila quintali, contro un consumo regionale stimato in circa 300 mila quintali, per un valore di 44 milioni di euro. La maggior parte della produzione è orientata verso i mercati locali, solo il 2% viene esportata fuori dal Paese. A motivo della persistenza delle emergenze sanitarie, la maggior parte degli stabilimenti di produzione utilizzano, per il confezionamento dei propri salumi, carne che proviene dalla penisola (88% circa), dall’estero (2%) e da paesi extracomunitari.

Avicoli,  cunicoli - Il comparto, sino a ieri poco visibile non solo a  motivo della limitata incidenza, in termini produttivi, nei confronti dell’intero comparto zootecnico sardo ma anche per l’assoluta assenza di strategia organizzativa, incomincia a mostrare segni di dinamismo. Nel 2006, nove società operanti nell’intera isola, hanno firmato un accordo dando vita alla prima  Op del settore, la “Cooperativa carni bianche della Sardegna”, con sede a Terralba (Oristano). Obiettivo: assicurare la programmazione della produzione e l’adeguamento della stessa alle esigenze del mercato, ridurre i costi e, nel contempo, rafforzare il potere contrattuale dei produttori nel rapporto con il mercato. Si tratta di aziende il cui indirizzo produttivo è rivolto all’allevamento di polli da carne, conigli e quaglie. L’Organizzazione è in grado di  chiudere l’intera filiera: incubatoi, schiusa delle uova, allevamento, macellazione, vendita.
L’isola conta 4.910 aziende con 415.856 capi da carne “ufficiali”, quelli cioè iscritti nei registri dei Servizi veterinari delle otto Aziende sanitarie locali, ma il numero di capi effettivi dovrebbe essere di molto superiore. La produzione di carne si  aggira sui 149 mila quintali, pari al 10% del fabbisogno regionale. Il consumo pro capite si attesta sui 10 chilogrammi  Il valore complessivo della produzione è sceso, negli ultimi cinque anni, da 22 a 18 milioni, mentre il mercato delle carni di pollo ha oggi un valore di circa 34 milioni di euro, dei quali 3,2 milioni relativi alla produzione regionale. 
L’allevamento di ovaiole nell’isola conta 57 aziende e 617 mila capi. La produzione di uova  si aggira  sui 157 milioni di pezzi, pari all’1,2% della produzione nazionale. 
La consistenza degli allevamenti di conigli è di 65 aziende e 135.856 capi allevati. Il consumo pro capite di carne di coniglio è di circa 5 kg; il fabbisogno regionale ammonta a oltre 8 mila tonnellate/anno a fronte di una produzione interna stimata in 500 tonnellate circa (pari al 6% del consumo regionale).

Ovini di razza sarda - La razza  ovina sarda è la più consistente in Italia (1 milione contro un patrimonio ovino nazionale di 6,7 milioni)  ed anche la più specializzata. Caratterizzata dalla capacità di sfruttare al meglio gli alimenti anche in avverse condizioni atmosferiche e di adattarsi quindi alle varie situazioni pedoclimatiche, è la più rustica e la più lattifera a livello mondiale. Grazie all’intensa opera di selezione operata dall’Associazione regionale allevatori della Sardegna, la capacità produttiva è progressivamente aumentata: in media, ogni pecora produce 227 litri di latte in 180 giorni, ma ci sono capi che producono anche 500 litri di latte. Il prezzo medio di un ariete varia da 2 a 4 mila euro; quello di una pecora adulta si aggira sui 300 euro. I capi iscritti al libro genealogico, istituito nel 1928, sono 411.125 distribuiti in 1.586 allevamenti presenti in 38 province italiane, dal Piemonte alla Basilicata, alla Sicilia e alla Calabria. La diffusione della razza sarda oltre i confini regionali è dovuta non solo alle capacità produttive, motivo che induce gli allevatori della penisola a venire nell’isola per  l’acquisto di arieti, ma anche al mai risolto problema del prezzo del latte, fermo a 0,60-0,64 centesimi al litro, che ha spinto gli allevatori sardi a disfarsi del proprio gregge. Nell’isola, gli ovini di razza sar­da sono 311.456 suddivisi in 1.234 imprese con una media di 200 capi. 

Il comparto lattiero caseario - Occupa sempre una posizione di rilievo nel sistema agroalimentare isolano il comparto lattiero caseario, nonostante le difficoltà degli ultimi anni a motivo dello sfavorevole andamento climatico e delle emergenze sanitarie. Con una quantità media annuale di latte ovicaprino di 300 milioni di litri, l’isola concentra la metà del latte ovino italiano e il 5% di quello mondiale. Da qualche anno, abbandono dell’attività,  crescenti costi dei mezzi tecnici utilizzati per la produ­zio­ne, mancata definizione del prezzo del latte  hanno determinato una riduzione del numero delle aziende ovine, sceso da 15 mila a 14.500 aziende, con un dimensione di 192-200 capi per allevamento,  e la conseguente diminuzione della produzione di latte e di formaggi. Nella campagna 2006-2007, secondo dati Istat,  sono stati prodotti  2.550 milioni di litri di latte ovino, con un valore medio pari a 200 milioni di euro, e 2.300 milioni di litri  di latte vaccino.  Il valore della produzione totale si attesta sui 332 mila migliaia di euro e rappresenta il 20% del fatturato dell’agricoltura sarda.

Settore ovino
-Tradizionalmente, la produzione casearia legata al latte ovino è orientata alla produzione di formaggi a pasta dura e semidura, a medio e a lungo periodo di conservazione. Solo una piccolissima parte viene destinato alla trasformazione e al consumo nell’ambito familiare. Il sistema di trasformazione ha ormai perso il carattere artigianale di produzione presso l’azienda pastorale; modalità che si conserva quasi soltanto per il formaggio Pecorino Fiore Sardo. 
La trasformazione industriale coinvolge 85 caseifici di cui 55 privati  e 30 ad organizzazione cooperativistica; quasi la totalità dei caseifici è coinvolta nella lavorazione di latte ovino. La produzione totale di formaggi oscilla intorno ai 500 mila quintali l’anno, il 60% dei quali è costituito da formaggi pecorini a Dop, in particolare dal  Pecorino Romano.
Il valore del prodotto venduto fuori dei confini nazionali è pari a 100 milioni di euro, derivante quasi integralmente dalla vendita del pecorino romano. Gli Usa sono il principale mercato di riferimento del prodotto esportato con 75 milioni di euro, ai quali seguono Canada con 4 milioni di euro, Francia, Germania, Grecia e Spagna con valori tra i 3 e 1 milione di euro.
L’isola vanta tre pecorini nazionali su sei nazionali che hanno ottenuto la protezione comunitaria come Denominazione di origine protetta. Sono il Pecorino Romano Dop, il Pecorino Sardo Dop e il Pecorino Fiore Sardo Dop. Ai quali si aggiungono il Siciliano Dop, il Toscano Dop e il Filian Dop. Gli altri formaggi ovi-caprini sardi comprendono pecorini non classificabili nei Dop, diversi tipi di Canestrati, Feta, formaggi a pasta molle a stagionatura medio breve, tipo Caciotta o Caciottoni, oppure a rapida maturazione e ricotte fresche e stagionate.
Le previsioni di un ulteriore aumento dei mezzi di produzione, come mangimi, concimi, sementi, gasolio ed elettricità, potrebbero indurre altri allevatori o ad abbandonare il settore o a risparmiare sull’acquisto degli alimenti per gli animali con il ricorso ai pascoli ma  anche con il conseguente inevitabile calo produttivo.
Coldiretti Sardegna, in considerazione dell’inevitabile ulteriore  calo di produzione di latte ovino, che per il 2008 dovrebbe attestarsi intorno al 15%, e  in previsione della ripresa delle trattative per la definizione del prezzo per la campagna 2008-2009,  ha avviato un’ indagine  finalizzata alla rilevazione dei costi di produzione del latte ovino. Lo ha fatto attraverso l”Osservatorio economico sui costi di produzione dei principali prodotti agricoli”, uno strumento di orientamento per le imprese.
I risultati del primo campionamento, realizzato da tecnici, docenti universitari  e rilevatori satistici, che hanno seguito il metodo classico della determinazione del tornaconto, hanno evidenziato che nell’isola, un’azienda zootecnica, nella campagna 2007-2008, ha speso in media da 1,10 a 1,25 euro per produrre un litro di latte ovino. Sempre nel 2007,  dopo che una parte del latte sardo aveva attraversato il Tirreno, gli industriali sardi avevano portato il  prezzo a 75 centesimi a litro, chiudendo con il conguaglio a 80. Prezzo che non ha consentito neppure il recupero dell’aumento dei costi di produzione.
Nella stagione in corso il prezzo del latte ovino è a quota 70-80 centesimi al litro con punte di 90, ma così distante dai costi rilevati attraverso l’Osservatorio.

Controllo della stagionatura del formaggio Pecorino Romano Dop in un caseificio dell'isola
Controllo della stagionatura
del formaggio Pecorino
Romano Dop in un caseificio
dell'isola
Pecorino Romano -
Il formaggio storicamente introdotto dai caseari laziali rimane la base più ragguardevole dell’intero sistema di trasformazione, della quale rappresenta mediamente  il 78 per cento.  Nella campagna 2007, su 255 milioni di litri di latte prodotto, contro i 237 della campagna precedente, il 72% è stato destinato alla produzione di 323.770 quintali di Romano, il 75% del quale è stato venduto nel Nord America. Il restante 30% viene assorbito, per il 90%, dal mercato italiano e per il  10% da mercati europei e del resto del mondo. Il canale commerciale è quello dei grossisti. Sette gli esportatori accreditati con le autorità doganali americane.
Dall’inizio del 2008  si è registrato un aumento dell’esportazione pari al 19%, con punte del 27% nell’Unione europea e del 13% negli Stati Uniti; questi ultimi hanno importato 19.623 quintali. Sempre negli Usa si sono spuntati prezzo che hanno sfiorato i 10 dollari al chilo, poco più di 6 euro a seconda delle oscillazioni dei cambi. Tra luglio e settembre, l’export negli Stati Uniti ha registrato un calo del 36,5%, andato aumentando sotto i colpi della concomitante crisi finanziaria americana. In realtà, è da alcuni anni che si assiste ad un progressivo calo di prodotto venduto: dal 2000 al 2008 si è passati da 200 a 170 mila quintali di Pecorino Romano esportato negli Usa, con una perdita di fetta di mercato pari al 13%. I consumi di formaggio in America sono aumentati in maniera esponenziale: dal 1990 ad oggi sono cresciuti del 76 per cento ma, nel frattempo, nel mercato si sono inseriti i paesi dell’Est europeo e altre realtà internazionali, come Siria, Uruguay e Argentina, in grado di produrre formaggi di pecora a prezzi che spesso sono la metà di  quelli nostri. C’è poi il rafforzamento dei prodotti made in Usa ad imitazione dei formaggi italiani; secondo Nomisma su dati Nielsen, la sola imitazione del Pecorino Romano ha raggiunto, nel 2007, un valore di 250 milioni di dollari. 
Il Pecorino è definito “Romano” in quanto, originariamente, veniva prodotto nell’agro romano. In Sardegna la produzione è stata avviata alla fine del 1800 da commercianti laziali per far fronte alle richieste degli emigrati italiani negli Stati Uniti: era il sapore della propria terra e della propria cucina. Attualmente, la produzione è limitata alle aree della Sardegna (pari al 90%), della regione Lazio e della provincia di Grosseto in Toscana. Pur con l’introduzione delle innovazioni che la tecnologia casearia ha reso disponibili, ne è stato mantenuto intatto il processo di produzione. Una percentuale dell’intero prodotto, esportata principalmente nel Sud Italia e in parte negli Usa, viene prodotta con il metodo della “cappattura nera”. Ed è l’isola a garantire la maggior quantità di cappato nero. Per il suo aroma caratteristico ed il gusto piccante viene usato nei condimenti dei primi piatti, ai quali conferisce particolare gradevole sapore.
Al relativo Consorzio di tutela, con sede a Macomer, aderiscono 54 aziende, tra privati e cooperazione, tre delle quali nel Lazio. Primo ad aver ottenuto in sede europea l’autorizzazione allo svolgimento delle funzioni di tutela, promozione e informazione rivolta ai consumatori, nell’ambito della produzione alimentare di qualità, il Consorzio ha tra i compiti principali quello di garantire ai consumatori le preziose caratteristiche del prodotto.
In termini occupazionali, la produzione di Pecorino Romano assicura lavoro, tra Agro romano e Sardegna, a più di 25 mila persone. Nell’annata 2006-2007 la produzione si è attestata sui 323 mila quintali, pari al 53% della produzione totale, contro i 238.851 dell’annata 2005-2006. Il fatturato complessivo sfiora i 120 milioni di euro.

Pecorino Sardo - Prodotto nelle due tipologie dolce e maturo, è il pecorino più ricercato dai consumatori locali. La differenza tra le due tipologie deriva dalle diverse tecniche di lavorazione e dalle caratteristiche dimensionali e organolettiche. Quello dolce completa il periodo di maturazione in 20-60 giorni, ha un gusto delicato, aromatico o leggermente acidulo, una pasta bianca, morbida,  compatta, leggermente occhiata; quello maturo ha un periodo di stagionatura più lungo e necessita di appositi locali a temperatura a umidità controllata. Il gusto è più forte e gradevolmente piccante; la pasta, che può essere bianca o leggermente paglierina, è dura e compatta. Nella prima fase dell’anno si vende il dolce, nel secondo e nel terzo trimestre quello maturo. 
La produzione del Pecorino Sardo è pari al 4,35% di quella totale. Dal 2 luglio 1996 qualità e provenienza  vengono garantiti dal relativo Consorzio di tutela, attualmente composto da 29 aziende per un potenziale produttivo stimato in circa 80 mila quintali annui. Dopo il 2006, anche il 2007  ha segnato un trend positivo: sono stati certificati, e quindi, marchiati circa 18 mila quintali di Pecorino Sardo Dop, 6 mila quintali della tipologia dolce e 12 mila della tipologia maturo. Il 90-95% della produzione raggiunge i mercati del Centro-Nord Italia, anche se negli ultimi anni è entrato in alcuni importanti mercati esteri, quali  Germania e Paesi del Nord Europa. Nonostante l’aggressiva concorrenza da parte di formaggi similari  che vengono proposti come Pecorino Sardo, per il 2008 si ipotizza una produzione ed una vendita di 20mila quintali.

Pecorino Fiore Sardo - È uno fra i più nobili prodotti caseari italiani e il formaggio più di nicchia tra quelli sardi  a denominazione di origine protetta. Inserito, unitamente al Pecorino Romano, negli atti della Convenzione di Stresa del 1951,  ha conosciuto l’avvio della produzione a marchio comunitario solo dall’annata 2002/2003.
Prodotto ancora secondo antiche e particolari tecniche di lavorazione artigianale codificate da un rigido disciplinare di produzione, è un formaggio a pasta dura cruda ottenuto esclusivamente con latte intero di pecora, appena munto, coagulato con caglio di agnello o di capretto. Dopo una breve sosta in salamoia, le forme, deposte su un cannucciato, vengono sottoposte ad affumicatura che conferisce al formaggio caratteristiche uniche.
Caratterizzato da sapore forte e aroma marcato, è un eccellente formaggio da tavola se usato entro i primi due mesi di stagionatura, un ottimo formaggio da grattugia se stagionato oltre sei mesi. Più degli altri pecorini, il Fiore, diventato ora uno dei presidi di Slow Food, soffre della sleale concorrenza di altri prodotti ad imitazione. A tutelarlo e a valorizzarlo ci pensa il Consorzio di tutela, con sede a Gavoi, al quale aderiscono 50  aziende produttrici sparse in tutta l’isola.
Complessivamente, la produzione annuale è di 17 mila quintali, ma solo una parte viene certificata. Nel 2007 sono stati 6 mila i quintali di formaggio marchiati Dop, pari a 204 mila forme. Quasi l’intera produzione certificata viene venduta sul territorio nazionale, tramite grossisti, presso la grande distribuzione, negozi specializzati e ristorazione. Ogni forma di Fiore Sardo Dop è identificata in maniera univoca da un dischetto di caseina di colore bianco in cui viene indicato il numero progressivo delle forme preceduto da lettere alfabetiche e da una etichetta circolare approvata dall’organismo di controllo. Il logo della Dop raffigura una pecora stilizzata. Venduto all’ingrosso tra i 5,50 e i 7 euro al chilo, viene proposto al dettaglio ad un prezzo che varia tra i 13 e i 24 euro al chilo.

Settore caprino - Con una produzione pari al 2,3% di quella totale, il latte caprino e i suoi derivati stanno assumendo particolare rilevanza. Recentemente, a Villagrande, è stato inaugurato il nuovo stabilimento di trasformazione del latte di capra; un’iniziativa nata dall’intesa tra Amalattea, azienda leader del settore caprino in Italia, e Galydhà, azienda isolana il cui marchio è ormai consolidato a livello nazionale.
Gli obiettivi dell’intesa sono la promozione del consumo di latte caprino italiano di alta qualità e l’incremento della produzione di derivati come yogurt, budini e formaggi freschi. Lo stabilimento di Villagrande Strisaili è un impianto all’avanguardia, completamente automatizzato e informatizzato, dislocato su un lotto di 18.550 mq, in grado di attestarsi su una lavorazione media giornaliera di 75 tonnellate di latte.

Stagionatura di formaggio Dolce Sardo prodotto dalla 3A Latte Arborea
Stagionatura di formaggio Dolce Sardo 
Settore vaccino -
Con una produzione pari al 37% della produzione totale di latte regionale, un valore alla produzione che si attesta sui 75 milioni di euro, pari al 10% sul totale delle produzioni zootecniche alimentari isolane, ed un valore commerciale medio che supera i 140 milioni di euro, anche il comparto lattiero-caseario vaccino occupa una posizione di tutto rispetto nel nostro sistema agroalimentare. Oltre il 60% della produzione viene assorbito dal latte alimentare, pastorizzato fresco o a lunga conservazione con sistema Uht. Il restante 40% viene trasformato in mozzarelle, burro, formaggi a pasta molle e yogurt. La trasformazione industriale interessa il15% degli 85 caseifici regionali.
Dei 265.904 capi bovini allevati in Sardegna, 34 mila sono da latte; le quote di produzione di latte assegnate alla Sardegna  nell’annata 2007-20008 sono state di 2,3 milioni di quintali, distribuite a  531 aziende in produzione, di cui 330 nel distretto di Arborea.
Oltre il 90% del latte vaccino prodotto in Sardegna viene lavorato, trasformato e distribuito dalla Cooperativa 3A Latte Arborea, la prima azienda agroalimentare della Sardegna per fatturato.
Centotrentasette milioni di euro di fatturato nel 2008; 220 dipendenti diretti e 250 addetti alla distribuzione e consegna dei prodotti in Sardegna e nella penisola; 302 aziende produttrici sparse in tutta l’isola, che conferiscono 200 milioni di litri di latte all’anno; produzione di latte alimentare di alta qualità, pastorizzato fresco (con una quota di mercato regionale pari al­l’85,8%) o a lunga conservazione con sistema Uht (con una quota di mercato regionale del 70,4%); prodotti derivati, come panna Uht (quota regionale 15,2%); ricotta fresca (quota regionale 23,6%); burro (quota regionale 36,2%); formaggi molli (Dolce Sardo, Crescenza e Provolette) e
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Preparazione della ricotta nello stabilimento della
3A Latte Arborea
stagionati (quota regionale 25%); mozzarella (quota regionale 41,8%); spalmabili (quota regionale 6,8%) e yogurt, quota regionale di mercato del 13,4% nell’Intero e 19,4 nel Magro (secondo gruppo nei due segmenti dopo i leader nazionali Müller e Danone), sono i dati più significativi della Cooperativa 3A Latte Arborea, forniti dalla società Iri Infoscan.
Cooperazione, mutualità, ricerca costante della qualità, innovazione e diversificazione della produzione, sostenibilità economica, ambientale e sociale sono le armi strategiche che hanno consentito alla stessa di raggiungere e confermare la leadership sarda nel comparto. 
Tra i molteplici record, la cooperativa annovera anche quello delle remunerazioni: tra le imprese lattiero-casearie è quella che, unitamente a poche piccole nicchie nazionali,  liquida ai produttori il prezzo più alto d’Ita­lia. Presente con un proprio marchio in tutta l’isola attraverso una rete distributiva molto capillare, la 3A colloca i suoi prodotti anche in Toscana, Lazio, Puglia, Campania, Sicilia, Abruzzo, Molise, Calabria, Basilicata. Il latte Uht prende continuativamente la via della Libia.
Tra le iniziative tese alla valorizzazione e alla diffusione dei prodotti, ricordiamo il lancio di una nuova linea yogurt Arborea e Coapla; il concorso a premi latte Uht Arborea e la campagna 2008 “Yogurt Arborea, passione da consumare”. Senza mai dimenticare la funzione di polo regionale di aggregazione dei produttori di latte vaccino sardo: un processo che si è concretizzato con il recente riconoscimento di Organizzazione dei produttori (Op) di latte vaccino della Sardegna.
Il restante latte vaccino di produzione regionale viene trasformato e commercializzato da altre imprese, di grandi e piccole dimensioni; tra le più importanti, la Ferruccio Podda di Sestu e la La.Ce.Sa. di Bortigali.

Per qualità organolettiche e salubrità del prodotto, il miele sardo si conferma uno dei migliori a livello internazionale
Per qualità organolettiche e
salubrità del prodotto, il miele
sardo si conferma uno dei
migliori a livello mondiale
Miele
- Il patrimonio apistico nazionale è riconducibile a 75 mila apicoltori che conducono 1.100.000 alveari e sfornano 150 mila quintali di miele all’anno per una plv di 60 milioni di euro. Sono presenti 50 mieli uniflorali. Quello isolano, presente su quasi tutto il territorio, è stimato in oltre 500 apicoltori, tra professionisti e amatori, 363 aziende regolarmente denunciate, 298 delle quali professionali e 65 gestite da hobbisti, 48.955 alveari razionali, 77 laboratori di smielatura.
Nelle buone annate, la produzione di miele sfiora i 16 mila quintali, pari alla metà del fabbisogno locale, e un fatturato che supera i 7 milioni di euro. Nel 2007-2008 il patrimonio apistico regionale si è ridotto del 30 per cento. Non esiste un’unica causa scatenante, anche se gli esperti sono concordi nell’attribuire forti responsabilità ad una recrudescenza delle virosi e della varroa, acaro che uccide gli insetti, e alla massiccia presenza di gruccioni, uccelli particolarmente ghiotti di api. Già nel 2006, a causa delle torride temperature estive, la produzione aveva subito un calo attestandosi a 8 mila quintali, poi scesa a 7.620 quintali nel 2007. Considerata l’attuale crescente domanda di mieli di alta caratterizzazione botanica, l’isola, per il suo clima favorevole e per la presenza di una agricoltura pulita ed estensiva, che non fa uso massiccio di pesticidi, e di numerose specie nettarifere di pregio, offre consistenti possibilità di sviluppo del comparto. Il miele sardo, infatti, si conferma uno dei migliori non solo per le qualità organolettiche, ma anche per la salubrità del prodotto. Uno dei prodotti bandiera dell’isola, il miele di corbezzolo, risulta essere il più costoso in ambito europeo.
L’elenco aggiornato dei prodotti italiani agroalimentari tradizionali predisposto dal ministero delle Politiche agricole e forestali comprende sei tipi di miele di Sardegna: miele di cardo selvatico, miele di asfodelo, miele di castagno, miele di eucalipto, miele di rosmarino e miele di corbezzolo. 
Il mercato dei mieli sardi, in ambito regionale, è legato esclusivamente al flusso turistico. Solo grazie alla capacità imprenditoriale di nuove figure di apicoltori, una percentuale di miele varca il Tirreno. Tra i Paesi d’oltre Oceano, il Giappone si conferma tra i maggiori acquirenti.
Nel 2001 è nato il Consorzio apicoltori sardi, con uno specifico obiettivo: l’ottenimento della Dop miele di Sardegna, già richiesta dall’assessorato regionale dell’Agricoltura. Anche la richiesta di riconoscimento della Dop al “Torrone di Sardegna” è finalizzata a favorire nuovi sbocchi di mercato per il miele sardo.
Confezioni in vetro di vari tipi di miele sardo
Confezioni in vetro di vari tipi di miele sardo
Ma il solo miele non è più in grado di garantire un reddito sicuro all’apicoltore: andrebbero favorite le produzioni secondarie come polline, propoli e pappa reale così come andrebbero sostenute le aggregazioni fra produttori per avere una maggiore forza contrattuale.
Per quanto riguarda la tutela del prodotto, sul mercato nazionale è presente una sola Dop, quella del miele della Lunigiana, mentre sono una decina quelli in attesa del riconoscimento della certificazione di qualità.
Il riconoscimento della denominazione tutelata a livello europeo è frutto di una battaglia contro le produzioni di miele del nord Europa e, in particolare, contro il tentativo di assimilare al miele prodotti della trasformazione derivati dello zucchero. I peggiori concorrenti sono i paesi dell’est Europa e dell’Asia.
Recentemente, con la finalità di valorizzare il prodotto,  è stata costituita l’Associazione nazionale Città del miele; nata con l’adesione di sei città, ora ne conta 35, due delle quali, Arbus e Guspini, sarde.