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Editoriale
Lucio Piga
I nuovi scenari dell'industria estrattiva
Carlo Mannoni
Un fondo unico per tutte le modalità di trasporto
Gherardo Gherardini
L'anello mancante della continuità territoriale
Lucio Piga
Investire in risorse umane: formula vincente di Vitrociset

 

I nuovi scenari dell'industria estrattiva
Lucio Piga

 

Cumuli di sabbie silicee in un'azienda del nord SardegnaOltre quattromila addetti, più di mille miliardi di fatturato, qualcosa come 400 aziende in attività. Sembra incredibile ma questa è oggi la nuova realtà del sistema estrattivo sardo e delle cave. La nascita del Parco geominerario sembrava porre la parola fine alla grande avventura delle miniere sarde, invece il settore è vivo e vitale seppure in gran parte sotto mutate forme. Da questo dato occorre allora partire per immaginare il nuovo futuro. Un futuro però, dicono tutti, che deve tenere conto dell’esperienza e di quanto sia importante accanto allo sviluppo economico e industriale la salvaguardia e lo stesso sviluppo delle risorse ambientali. Coniugare produzione e sviluppo con la difesa del patrimonio naturale: è questa oggi la grande sfida che attende la Sardegna.

Miniere ancora vive e vegete, dunque. La conferma, se ve ne fosse bisogno, arriva dal direttore del servizio minerario dell’assessorato regionale all’Industria, Luigi Fadda. «Non è affatto vero che le attività minerarie siano morte; non c’è niente di più inesatto. Sono sicuramente chiuse le miniere tradizionali del piombo e dello zinco, delle bariti, ma c’è uno sviluppo del settore dei nuovi minerali, quelli ormai noti come minerali industriali: il caolino, i feldspati, le bentoniti. Quelli che oggi hanno mercato e consentono di fare utili».

Il bello è che questa realtà non è poi una vera novità. Da diversi anni andava consolidandosi ormai il nuovo corso delle miniere. Lo ha rilevato più volte Carlo Marini, docente universitario e grande esperto proprio dei minerali industriali. «È ormai da tempo – scriveva Marini negli atti del Convegno sulle materie prime minerali in Sardegna tenutosi nel 1997 – che l’intero settore estrattivo minerario va in pratica ricondotto ai soli minerali industriali». Ed ora ci troviamo forse di fronte ad un nuovo boom, caratterizzato ad esempio dal fatto che il 50% della produzione nazionale di minerali industriali è “made in Sardinia”. Nuovi prodotti e nuove richieste di mercato aumentano il valore economico di beni in precedenza considerati poco remunerativi e poveri.

«Si pensi soltanto alle bentoniti – ricorda Luigi Fadda – che, per esempio, hanno un impiego così vasto e fra i più vari che pochi prodotti riescono a starle al passo. La bentonite infatti è impiegata nella fabbricazione degli alti forni metallurgici per il suo alto potere refrattario, ma è anche uno dei materiali privilegiati dall’industria cosmetica». Ma il discorso si allarga anche alle argille, al caolino, ai feldspati, contraddistinti da un’enorme varietà, che sono diventati una materia prima richiestissima per l’industria delle piastrelle e delle maioliche.

I nuovi scenari dopo la chiusura dei settori tradizionali

Trasporto di un minatore in una galleria del Sulcis
Trasporto di un minatore in una galleria del Sulcis
Si volta decisamente pagina, dunque, come conferma Giampiero Pinna, ex amministratore delegato Progemisa, già presidente dell’Emsa ed attualmente consigliere regionale e segretario della Commissione Industria. «Ho lasciato le miniere nel 1986, quando facevano ancora parte delle Partecipazioni statali. All’epoca ricoprivo il ruolo di direttore del Servizio geologico nazionale della Samim e lo feci perché la politica delle Partecipazioni statali, soprattutto per il settore minerario, non lasciava intravedere più alcuna ulteriore possibilità di sviluppo. Nonostante qualcuno si arrabattasse a dimostrare che quelle miniere potevano essere recuperate dal punto di vista economico, a mio avviso non c’era in effetti nessuna possibilità in tal senso. Già due anni prima, dirigendo il Servizio geologico, avevo avviato una diversificazione della ricerca orientata verso quei minerali e metalli che invece potevano avere una nuova prospettiva nei settori della trasformazione industriale soprattutto nel campo delle lavorazioni delle ceramiche e nel vetro, ma anche verso i metalli nobili di cui in Italia non si era mai parlato ma che anche in seguito alle scoperte effettuate in Canada e negli Stati Uniti potevano aprire opportunità di sfruttamento, ad esempio l’oro».

  

LOCALIZZAZIONI IMPIANTI MINERALI INDUSTRIALI

società

minerali

località

Maffei

feldspato e sabbie quarzose

Orani, Ottana, Siligo

Svi.Mi.Sa

feldspato, argille, caolini

Escalaplano, Galtellì, Mara

4MP

sabbie quarzose feldspatiche

Mores

Trexmin

rocce feldspatiche

Siurgus Donigala

Dore & Monni

sabbie quarzose feldspatiche

Florinas

Sarda Silicati

sabbie silicee

Florinas

Cisa

argille speciali

Nurallao

Sarmin

argille speciali

Laconi

Smit

argille speciali

Mores

MM2 Loriga

argille speciali

Siligo

S.S.B.

bentoniti

Sassari, Giba, Santa Giusta

Miner Sarda

argille assorbenti e bentoniti

Morgongiori, Olzai

Stass

argille assorbenti e bentoniti

Villanovatulo

Ceca italiana

bentoniti

Putifigari

Perlite

perlite

Mogoro

Nuova Mineraria Silius

fluorite

Silius

Talco Sardegna

talco

Orani

Fonte:Atti del convegno “Le materie prime minerali in Sardegna” 1997

Oggi i minerali industriali sono diventati leader del sistema estrattivo non solo sardo. Come ribadisce Luigi Fadda, le miniere metallifere a partire dal 1960 hanno cominciato a perdere economicità in parte per l’impoverimento e l’esaurimento progressivo dei giacimenti ed in parte, ma con esso strettamente correlata, per la sempre più ridotta competitività delle produzioni sarde mano a mano che cresceva e si sviluppava la mondializzazione dell’economia.

Una normativa anacronistica 

 

Montaggio nella miniera di Nuraxi Figus del
Montaggio nella miniera di Nuraxi Figus del "Taglio", l'enorme macchina per l'estrazione del carbone
«Per comprendere l’evoluzione subita dal sistema produttivo occorre definire innanzitutto i contorni della materia precisa Fadda – distinguendo fra attività mineraria e attività di cava. Si tratta di due approcci assai differenti». L’attività mineraria in effetti, è stata disciplinata da varie disposizioni, ma un punto di riferimento è ancora oggi la legge del 1927. Soprattutto in quel periodo storico, infatti, l’attività mineraria ha cominciato a rivestire un ruolo ed un peso particolare, tanto più in assenza di un processo di mondializzazione dei sistemi economici. Per i singoli paesi le risorse del sottosuolo rappresentavano una inestimabile ricchezza ed in particolare i minerali metalliferi, della cui disponibilità solamente lo Stato, pertanto, poteva decidere data la loro importanza strategica. In questo senso l’istituto della concessione mineraria è una questione di necessità.

I minerali sono catalogati in due categorie che li elencano dettagliatamente. Sono di prima categoria i minerali che per la loro validità strategica sono considerati parte del patrimonio indisponibile dello Stato e il cui sfruttamento dipende da una concessione apposita. Alla seconda categoria appartengono le materie di non rilevante interesse per lo Stato e che quindi sono lasciate a disposizione della proprietà del suolo e per la cui coltivazione è sufficiente una semplice autorizzazione.

Nasce forse da qui la distinzione fra cave e miniere e la differenziazione della disciplina per il relativo sfruttamento delle singole risorse. Ma ormai, in considerazione delle mutate condizioni di mercato e delle mutate tecnologie orientate sempre di più alla coltivazione dei giacimenti minerari a cielo aperto, si presenta come una differenziazione più formale che di sostanza.

Rimane il fatto che le produzioni industriali hanno ormai valorizzato fortemente materiali che in passato non sembravano avere valide prospettive economiche. Questi materiali, essendo suscettibili di svariate utilizzazioni secondarie nel processo industriale, vengono chiamati “industrial minerals”.

Ma quali sono i minerali industriali che attualmente offrono le maggiori soddisfazioni di mercato? In primo luogo tutte le sabbie silicee, i feldspati, i caolini che rappresentano materie prime di pregio per la fabbricazione di ceramiche (dalle piastrelle alle suppellettili per uso industriale o domestico). I tecnici parlano specificamente di argille per ceramica, feldspati, caolino. E poi bentonite ed argille assorbenti, argille per laterizi, perliti, fluorite, carbonati cementiti.

 

PRODUZIONE DI MINERALI INDUSTRIALI IN SARDEGNA

(anno 1999)

minerale

produzione (tonnellate)

operai

impiegati

argento

1,4

0

0

argille refrattarie

168.828,0

13

6

oro

1,0

50

22

bentonite

381.287,0

24

26

caolino

161.555,0

3

0

feldspato

681.391,0

61

23

Fluorite

43.367,0

166

38

talco

0,0

18

2

totale

1.436.430,4

335

117

Fonte:assessorato regionale Industria

Per quanto riguarda le argille per ceramica, i rispettivi giacimenti più interessanti si trovano nella Sardegna centro-orientale; in particolare a Nurallao, Escalaplano, Isili, Orroli e Laconi. I feldspati hanno anch’essi avuto un fortissimo impulso con l’espandersi della ricerca nell’industria ceramica. I giacimenti sardi sono fra i più ricchi e di pregio dell’intera penisola. Quindi il caolino che dopo l’utilizzo come materiale refrattario ha esteso il suo “raggio d’azione” nel campo della ceramica e delle vernici. Nell’isola, citiamo sempre gli atti del convegno su “Le materie prime minerali”, i giacimenti più ricchi si trovano nella zona compresa fra i comuni di Padria, Cossoine, Romana e Tresnuraghes. Per quanto riguarda le bentonite e le argille assorbenti, la Sardegna rappresenta in un certo senso la riserva principale dell’industria nazionale. La produzione nostrana rappresenta il 90% dell’intera produzione nazionale.Per quanto concerne gli impieghi esse sono utilizzate nell’industria metallurgica, nell’ambito delle perforazioni petrolifere, e in altri settori industriali, come ad esempio l’industria cosmetica. I giacimenti sono sparsi in molte aree di tutta la Sardegna occidentale.

Proseguendo nella lunga carrellata sui minerali industriali, non si possono non ricordare le argille per laterizi nel cui ambito operano ben undici cave, i minerali di fluoro, in particolare la fluorite. E quindi le perliti, concentrate soprattutto nella zona del Monte Arci, che vengono utilizzate come isolante in edilizia, nell’industria delle vernici ed in quella del cemento. Ancora fiorente il mercato per i carbonati per il cemento, mentre più recente lo sfruttamento delle sabbie silicee per l’industria vetraria.

Questa breve panoramica può essere conclusa con il talco estratto ad Orani, che viene utilizzato nell’industria della gomma, della carta e nel settore degli isolanti elettrici.

 

Una nuova occasione di sviluppo?

Le cifre parlano chiaro: si tratta di un business, come si vede, di estrema importanza. Soltanto per quanto riguarda il settore dei minerali industriali, secondo dati relativi al 1999, in possesso dell’assessorato all’Industria, la produzione ha superato il milione e 400 mila tonnellate con oltre 450 dipendenti diretti cui si devono aggiungere gli oltre 300 addetti nell’indotto, ai quali occorre sommare però i lavoratori impiegati nelle cave, che superano le 2.850 unità. Solamente un leggero decremento rispetto a cinque anni fa quando, in occasione del convegno sulle miniere a cielo aperto, furono forniti dati leggermente superiori per ragioni congiunturali. Come si può desumere dalle tabelle, riportate in queste pagine, la produzione complessiva ammontava nel 1999 a 1.500.000 tonnellate di minerali industriali, cui si aggiungevano i 15 milioni di tonnellate di materiali da cava e rocce ornamentali, per un ammontare (compresi i lavoratori del settore cave e l’indotto) di 3.095 addetti, che aggiunti agli 874 addetti nelle aziende di trasformazione localizzate in Sardegna portava la forza lavoro dell’intero comparto a 3.979 unità.

Dell’importante valenza economica del “nuovo corso” del sistema estrattivo regionale è buon testimone Giampiero Pinna: «Nel 1987 ebbi l’incarico di amministratore delegato della Progemisa e constatai che anche fra le partecipate regionali la ricerca era tutta orientata ai settori tradizionali. Cominciai invece a rivoluzionare tutta l’impostazione della ricerca orientandola soprattutto verso i minerali industriali e quindi i feldspati, i caolini, le sabbie silicee e verso i metalli preziosi. La ricerca dell’oro iniziò proprio nell’87 quando arrivai in Progemisa».

«Da queste ricerche si sono ottenuti risultati importanti. In quel periodo – ricorda Pinna – è stato valorizzato il giacimento di sabbie silicee e di feldspati e caolino di Florinas, Ossi, Cargeghe e Mores che rappresenta il più grande giacimento italiano. Si tratta di un giacimento sfruttato in passato solo per sabbia da intonaci. Si è visto inoltre che quelle sabbie contenevano il miglior quarzo che si poteva produrre in Italia. E che poteva sostituire gran parte delle importazioni dall’estero. Si tratta di materiali di altissimo pregio e molto ricercati. Una delle caratteristiche più apprezzabili del caolino che si trova in Sardegna, ad esempio, è che può essere adoperato senza alcuna lavorazione ulteriore per la produzione di gres porcellanato».

Sergio Usai, della Segreteria regionale Cgil, così ricorda quel periodo. «Il panorama estrattivo che fino agli anni Ottanta era solamente improntato al metallifero tradizionale, cioè piombo, zinco, fluoriti e carbone, stava cominciando a indicare un nuovo corso che molti stentavano ancora a vedere. La Sardegna è di fatto la regione con la più alta concentrazione di minerali di seconda categoria che approvvigiona per oltre il 50% la produzione delle paste ceramiche, in particolare composte da feldspati, caolini e sabbie silicee che oggi trovano in Sardegna quell’approvvigionamento che prima proveniva dalla Germania, dai giacimenti emiliani, o dalla Spagna. Oggi il ruolo della Sardegna è ben noto ai grossi gruppi ceramici che operano nell’isola, come Iris Marazzi, che governa quasi l’intero mercato mondiale delle ceramiche. Sottolineo l’importanza che hanno in questa direzione i giacimenti del triangolo Ottana, Sarule Oniferi, dove si realizza la gran parte della produzione». 

 

SITI MINERARI METALLIFERI IN SARDEGNA ORMAI CHIUSI

miniera

località

proprietà

Santa Lucia

Fluminimaggiore

Gruppo Eni

Arenas

Fluminimaggiore

Gruppo Eni

Su Zurfuru

Fluntinimaggiore

Gruppo Eni

Gutturu Pala

Fluminimaggiore

Gruppo Eni

Candiazzus

Fluminimaggiore

Gruppo Eni

Malfidano

Fluminimaggiore

Gruppo Eni

Santu Luisu

Fluntinimaggiore

Gruppo Eni

Is Scalittas

Buggerru

Gruppo Eni

Acquaresi

Buggerru

Gruppo Eni

San Benedetto

Iglesias

Gruppo Eni

Montecani

Iglesias

Gruppo Eni

Monteponi

Iglesias

Gruppo Eni

San Giovanni

Iglesias

Gruppo Eni

Campo Pisano

Iglesias

Gruppo Eni

Monte Scorra

Iglesias

Gruppo Eni

Nebida-Masua

Iglesias

Gruppo Eni

Sa Duchessa

Domusnovas

Piombo zincifera sarda

Sa Giovanni

Donausnovas

Piombo zincifera sarda

Monte Onixedda

Gonnesa

Piombo zincifera sarda

Sedda Moddizzis

Gonnesa

Piombo zincifera sarda

Berga

Carbonia

Emsa

Barex

Carbonia

Baroid

Santa Ceriana

Carbonia

Edem

Santa Maria

Carbonia

Edem

Mont'Ega

Narcao

Emsa

Rosas

Narcao

Gruppo Eni

Su Bermatzu

Santadi

Edem

Orbai

Villamassargia

Baroid

fonte “Sardegna industriale”

La discesa a valle e le diseconomie

Ma è prematuro, si afferma fra gli addetti ai lavori, esprimere facili entusiasmi. Non tutto, a ben guardare, va ancora bene. «Purtroppo siamo alle solite. Dietro l’estrazione di questi materiali non esiste alcun livello di verticalizzazione. Contrariamente a quanto potrebbe invece offrire il mercato e a dispetto della qualità delle nostre materie prime non riusciamo tuttavia a far nascere un distretto ceramico come è avvenuto ad esempio in Emilia. Invece dovrebbe essere questa una delle tappe di una rivendicazione che è stata sottovalutata da parte degli organi politici regionali. Già negli anni Ottanta il Sindacato Cgil-Cisl-Uil proponeva che si raccordasse il rilascio delle concessioni estrattive ad una ipotesi di lavorazione in Sardegna di almeno il 50% di queste materie prime. Voglio solo ricordare che la linea merci notturna Olbia-Livorno è nata prevalentemente in funzione del trasporto di questi materiali».

«Altro settore da valorizzare è quello delle piastrelle e della ceramica. Ma queste attività – precisa ancora Giampiero Pinna – non possono nascere dall’oggi al domani; occorre creare un sistema ed una rete infrastrutturale adeguata, che favorisca nuove localizzazioni industriali e nuovi investimenti. L’esempio che viene in mente è quello dell’azienda “Terrecotte” il cui problema, che non abbiamo mai risolto, è quello del costo dell’energia e dei trasporti. La mancanza del metano, ad esempio, è stata deleteria. È indispensabile avere fonti di energie che abbiano il medesimo costo delle altre zone del Paese. Così pure per il sistema dei trasporti, che è la garanzia dell’esportazione dei prodotti».

E invece si continua con la logica della “rapina”. «Purtroppo è così – dice l’esponente politico –. Anche il grande giacimento di Florinas è oggetto di grande contestazione da parte delle popolazioni perché ad eccezione della Sardasilicati (società mista regionale con un imprenditore serio e capace) che ha avviato una prima trasformazione dei prodotti, gli operatori della zona estraggono il materiale con gli escavatori e lo caricano direttamente sui camion in partenza per Sassuolo. Questa è una vergogna inaccettabile. Ed il risultato è che l’unica società che trasforma i minerali realizzando investimenti per oltre 30 miliardi è la Sardasilicati, nata per volontà della Progemisa di allora, e che riesce a dare valore aggiunto a questo prodotto separando i diversi prodotti ciascuno dei quali può vantare maggiore valore aggiunto: sabbie per il vetro bianco, sabbie per il gres porcellanato, il feldspato potassico, il caolino. Si tratta di una prima lavorazione, è vero, ma è già tanto, perché oltretutto consente di impiegare alcune decine di addetti, mentre gli altri operatori che producono anche quantità maggiori hanno alle dipendenze due o tre persone».

Ma l’esperienza di cinquant’anni di battaglie e di rivendicazioni per la verticalizzazione delle produzioni dei minerali metalliferi, c’è da chiedersi, non ha dunque insegnato nulla? «Purtroppo tutto il sistema è rimasto incompiuto – contesta il sindacalista Sergio Usai –. L’avvento di una vera lavorazione manifatturiera non c’è mai stato; se non parzialmente nel processo di fusione di San Gavino che però ha visto solamente la produzione dei pallini per le cartucce da caccia e delle batterie per auto».

Secondo Usai, che condivide pienamente il giudizio di Pinna, «esistono le opportunità, ma abbiamo bisogno di creare le condizioni infrastrutturali di contorno per favorire gli investimenti industriali manifatturieri. Gli impianti metallurgici di Portovesme producono oggi il 78% del fabbisogno nazionale. Si tratta di una risorsa primaria della Sardegna; nonostante la chiusura delle miniere metallifere l’industria metallurgica resta in vita. In passato la metallurgia di Portovesme era approvvigionata per il 50% in Sardegna e per il resto dalle importazioni. Oggi la materia prima è tutta d’importazione. Manca però un sistema di imprenditoria privata che si schieri a valle delle produzioni primarie per attuare le seconde e le terze lavorazioni. A Cagliari abbiamo un esempio particolarmente emblematico, con un produttore sardo di componentistica di alluminio che lavora quasi esclusivamente per la Mercedes. Al punto da dover importare dalla stessa Germania la materia prima che viene poi lavorata nello stabilimento sardo. Questa è la risposta: non occorre essere nel triangolo industriale del Nord Italia, ma occorre essere capaci imprenditori, fare produzioni di qualità ed essere competitivi».

Ma cosa ha fatto il Sindacato per combattere questa deriva? «Il Sindacato ha cercato di fare in pieno tutto quanto possibile – risponde Usai – percorrendo strade anche molto impegnative, sindacalmente onerose, tanto più difficili per una organizzazione che rappresenta i lavoratori minerari sempre considerati fra i più duri, i più rigidi e ostili all’impresa. È stata superata questa visione, si sono introdotti livelli di flessibilità molto accentuata. Nel territorio tradizionalmente minerario si è riusciti ad attuare il contratto d’area, sono state accettate forme di organizzazione del lavoro molto aperte all’impresa, che a Melfi, ad esempio, creano invece forti difficoltà alla Fiat. Sono esempi per dimostrare che vi sono notevoli convenienze agli insediamenti industriali».

Secondo il Sindacato, esistono in tutto ciò errori e carenze anche da parte del sistema istituzionale regionale, oltre ché dal mondo dell’imprenditoria sarda. «La prima è che il sistema politico regionale non ha capito tempestivamente quale sarebbe stata la conseguenza della scomparsa delle Partecipazioni statali – sostiene il sindacalista Sergio Usai –. Perché tutti siamo stati ad un certo punto concordi sulla necessità di superare la fase dell’impresa pubblica, ma le istituzioni non sono state capaci di capire che era allo stesso tempo necessario creare le condizioni per la crescita di una nuova classe imprenditoriale isolana capace di gestire quanto veniva lasciato libero dalle Partecipazioni statali. Si è creata una instabilità e una precarietà del sistema economico caratterizzato da un sistema di piccoli imprenditori che si definivano tali solo perché avevano le commesse d’appalto delle imprese pubbliche. Quando le imprese pubbliche sono passate nelle mani degli imprenditori privati e delle multinazionali che hanno superato la fase delle elargizioni e delle connivenze con la politica, le stesse commesse d’appalto sono state gestite con una nuova logica economicistica e privatistica che ha posto fine alle elargizioni».

«Tutto ciò – a detta di Usai – con la conseguenza disastrosa del tracrollo di molte imprese locali ed il fallimento di decine e decine di piccoli imprenditori il cui unico fatturato fino ad allora era determinato dalle sole commesse d’appalto. In molti casi siamo tuttavia ancora in attesa di voltare del tutto pagina perché moltissime opportunità potrebbero essere esplorate se il sistema imprenditoriale svolgesse in prima persona quel ruolo di protagonista, anche in termini di investimento, del settore manifatturiero. E non si tratta dei soli minerali industriali, perché possiamo ormai affermare che l’industria chimica, e l’industria metallurgica dell’alluminio, del piombo e dello zinco sono per la Sardegna settori produttivi primari, autentiche risorse prime regionali suscettibili di ulteriore sviluppo e valorizzazione».

«Credo che abbiamo bisogno di una forte azione di supporto da parte del sistema economico del Paese – soggiunge Usai –. Dobbiamo riuscire a far capire quali sono i grandissimi vantaggi (sicuramente non inferiori a quelli di altre realtà) derivanti da una localizzazione in Sardegna. Dall’esperienza del contratto d’area del Sulcis Iglesiente – ricorda ancora il rappresentante della Cgil – abbiamo preso atto di un fatto: dai rapporti avuti con la Confindustria milanese o con gli imprenditori trevigiani, abbiamo notato interesse ad investire in Sardegna. Però ci siamo mossi senza avere al nostro fianco il supporto istituzionale. Non possono essere la Cgil, la Cisl e la Uil del Sulcis a dialogare direttamente con le istituzioni imprenditoriali del Nord: deve essere direttamente la Regione, deve esservi una azione congiunta».

Anche secondo Giampiero Pinna, esistono certamente gli spazi per creare un sistema imprenditoriale in grado di valorizzare le nostre risorse primarie. «Per tornare alla questione della valorizzazione delle materie prime sarde – ricorda l’esponente del Consiglio regionale – devo dire che negli anni Ottanta ho ideato e progettato, e poi fatto nascere nel mio lavoro all’Emsa, la Società Lana di roccia, e poi l’ho anche privatizzata. Questa azienda è un perfetto esempio del modo in cui da un materiale povero (il basalto) si può produrre ricchezza». 

Miniere, territorio e turismo

«Ma c’è un aspetto su cui va fatta la battaglia – rivendica Giampiero Pinna – ed è che su questi materiali si gioca una sfida importante: quella della valorizzazione dello sviluppo coniugata alla salvaguardia dell’ambiente e del territorio. L’attività mineraria, soprattutto quella a cielo aperto, consuma fortemente il territorio. Vi è il problema delle nuove autorizzazioni. Esse devono essere tutte corredate da uno studio di impatto ambientale e con un impegno coercitivo nei confronti dei concessionari perché venga rispettato il progetto di ripristino e recupero ambientale. Su tutto questo occorre una vigilanza molto ferma e severa».

Perché allora non puntare tutto sulla valorizzazione delle risorse ambientali attraverso l’industria del turismo? Su questo piano il Sindacato esprime però forti perplessità.

«L’industria è un settore economico che difficilmente può essere soppiantato o superato quanto a peso economico dai cosiddetti settori emergenti, ad esempio il turismo o i servizi – dice Usai –. Tutti i settori devono reciprocamente bilanciarsi ed integrarsi a formare un sistema compiuto. Basta un esempio: nel Sulcis le attività industriali producono complessivamente oltre 300 miliardi all’anno in termini di redditi per le famiglie, con una massa complessiva di 7 mila addetti fra il settore metallurgico e carbonifero. Da un rapido calcolo è facile verificare che per assicurare lo stesso ammontare di redditi il turismo dovrebbe poter contare sulla presenza fissa (per tutto l’anno intendo) di 5 milioni di turisti nella sola Sardegna sud-occidentale. Per altro verso vi è l’esigenza che qualsiasi sviluppo industriale deve essere compatibile con il rispetto dell’ambiente». 

Carbone e gassificazione

L'assessore regionale dell'Industria Andrea Pirastu
L'assessore regionale dell'Industria Andrea Pirastu
E mentre “esplode” il business dei minerali industriali, resta più che mai incerta la sorte delle miniere di carbone, e del progetto per la gassificazione. Recentemente dalla Associazione temporanea di imprese, Ati, che secondo l’accordo di programma dovrà costruire e gestire gassificatore e miniera, è stato proposto un rinvio della fase operativa. Intanto si sta anche chiedendo il momentaneo riavvio della produzione nella miniera di Nuraxi Figus che dovrebbe sfornare entro i prossimi mesi 300 mila tonnellate di carbone. Si tratterebbe di una messa in produzione soltanto temporanea per alleviare i costi fissi di una azienda da anni posta in stand by e che tuttavia deve far fronte a pesanti obblighi finanziari per evitare il deterioramento degli impianti. Fra Ati ed il Comitato di coordinamento dell’Accordo di programma, è in atto un contenzioso. L’Ati sembra avanzare pretese che invece la Regione afferma pretestuose. Da tempo i termini per l’avvio del progetto sono scaduti.

«Più che in un regime di proroga – afferma l’assessore regionale all’Industria della Regione, Andrea Pirastu – ci troviamo in realtà in un regime di tolleranza. Il Comitato di coordinamento ha fatto tutto quello che doveva fare. L’Ati non può continuare così all’infinito. A questo punto è necessario un accordo integrativo. La Regione chiede date certe ed in tal senso il Comitato mi ha dato mandato».

Nella sua ultima seduta il Comitato di coordinamento, che è presieduto dallo stesso assessore all’Industria, ha stabilito di avviare una verifica presso l’Ati per un accordo integrativo alla convenzione di concessione «che consenta una gestione provvisoria congiunta della miniera, da parte di Ati e Carbosulcis, in attesa che vengano completati gli adempimenti ancora mancanti». La nota del Comitato precisa che «si tratta dell’ultima opportunità concessa all’Ati per salvare la realizzazione del progetto di gassificazione». La gestione congiunta, secondo il Comitato, «consentirebbe un incremento della presenza dei tecnici Ati nella miniera, l’avvio delle azioni di formazione e addestramento del personale, il riavvio dell’attività mineraria per l’estrazione di 300 mila tonnellate/anno».

«Si è perso molto tempo, addirittura 10 anni – lamenta la Cgil –, con la gestione dell’Eni che non ha mai consentito di metter in produzione la miniera ed ha gestito l’attività con una logica esclusivamente assistenzialistica. Con la cacciata dell’Eni e l’apertura della fase di privatizzazione si pensava ad una ripresa energica dell’intero progetto, ma siamo tuttora fermi. Non si può imputare ai lavoratori se il processo di privatizzazione è così lungo».

Quello di Carbosulcis è un progetto da 2.600 miliardi, che dovrebbero essere finanziati dalle banche. La gassificazione per produrre energia elettrica sarebbe il sistema ecologicamente più avanzato al mondo. Il progetto della Associazione temporanea di imprese prevede la realizzazione di un impianto di produzione di energia elettrica attraverso l’utilizzazione del gas prodotto dal carbone, per una potenza di 450 megawatt. Al termine di una gara internazionale l’Ati Sulcis, costituita principalmente da Ansaldo Energia spa e Sondel spa, si è aggiudicata la concessione per la realizzazione degli impianti e la concessione mineraria per l’estrazione della materia prima. La concessione prevede finanziamenti per oltre 400 miliardi, lo sfruttamento della miniera per 30 anni, la garanzia che l’Enel acquisterà l’energia elettrica prodotta e una tariffa agevolata del kWh per i primi otto anni di esercizio. La contropartita ad opera dei concessionari dovrebbe essere, oltre alla relativa realizzazione degli impianti, gli oneri derivanti dalla gestione della miniera, il rispetto dei vincoli ambientali, l’utilizzazione di carbone Sulcis nella misura di almeno il 50% dell’intera produzione, la garanzia dei livelli occupazionali della Carbosulcis.

La metallurgia

Mentre proseguiva il declino delle miniere metallifere, tuttavia, il settore metallurgico si ristrutturava. Oggi le maggiori società operanti sono sette: Alcoa Italia, Eurallumina, Portovesme srl (già Nuova Samim), Portovesme ex Comsal, Carbosulcis, Enel. Complessivamente vi sono impiegati 3.600 dipendenti diretti cui si aggiungono circa 2.300 addetti degli appalti e dei servizi. La chiusura delle miniere non ha avuto in modo diretto ripercussioni eccessive sulle aziende operanti nel settore della metallurgia del piombo e dello zinco. Se in passato l’approvvigionamento delle materie prime avveniva in parte dalle produzioni minerarie, ora queste sono tutte di importazione. Al dicembre 2000 la società “Portovesme srl” (ex Nuova Samim) vantava una produzione di 290 mila tonnellate di prodotti metallurgici, di cui circa 120 mila tonnellate di piombo e 170 mila tonnellate di zinco. Nell’azienda sono impiegati 800 addetti. A questi ultimi si devono aggiungere poi i circa 600 lavoratori impiegati nell’indotto.

Nel settore dell’alluminio, l’Eurallumina, dopo una serie di problemi derivanti dallo smaltimento delle scorie (i fanghi rossi), sembra aver avuto un adeguato assestamento, anche se permangono le difficoltà derivanti dallo smaltimento dei sottoprodotti della lavorazione. Attualmente produce circa 1.020 mila tonnellate di allumina attraverso la estrazione del metallo dalla bauxite. I dipendenti diretti sono circa 450, mentre 160 sono gli occupati dell’indotto.

L’Alcoa Italia (ex Alluminio Italia) utilizza l’allumina prodotta da Eurallumina per produrre nello stabilimento di Portovesme 250 mila tonnellate di alluminio primario e in quello di Iglesias 7 mila tonnellate di estrusi. I dipendenti sono rispettivamente 700 nello stabilimento di Portovesme e 70 in quello di Iglesias.

La ex Comsal, ora Ila Portovesme, è impegnata nella produzione di laminati di alluminio, di cui sforna 20.000 tonnellate all’anno con 254 dipendenti.

Infine l’Enel, che nelle due centrali di Portoscuso produce 560 Mw di energia elettrica dando lavoro a 425 dipendenti.

Contraccolpi pesanti hanno invece subito, a causa del processo di deindustrializzazione complessivo cui è stata sottoposto tutto il Sud Ovest dell’isola, le aziende metallurgiche di San Gavino. La nuova Scaini, infatti, ha attraversato un pesante periodo di crisi culminato con un drammatico incendio di alcuni reparti nel 1989. Dopo la ricostruzione e le ripresa della produzione di accumulatori elettrici per auto, l’azienda sembra aver ottenuto un positivo recupero. Il processo di privatizzazione ha avviato una ripresa produttiva importante ma non sembra aver ancora dissipato completamente i timori dei dipendenti che ammontano a 250 unità. 

Il Parco geominerario

Ed i vecchi siti piombo zinciferi che futuro avranno? L’epilogo nel 1999, anno che ha segnato prima la lenta riduzione delle produzioni, quindi l’avvio delle procedure di fermata degli impianti. Ma proprio da lì è cominciato di fatto un nuovo capitolo per tanti aspetti inedito ed anche entusiasmante: la nascita del Parco geominerario. È la testimonianza ed insieme una scommessa di riconversione fra due opposti: da una parte le miniere, attività di per sé devastante per il territorio, e dall’altra la salvaguardia ambientale che diventa risorsa economica da sfruttare.

Il Parco nasce per prima cosa con l’obiettivo di risanare e mettere in sicurezza un territorio che secoli di sfruttamento minerario hanno fortemente degradato e reso pericoloso se abbandonato a se stesso. Ma con l’obiettivo di prospettiva di valorizzare economicamente i siti minerari dimessi attraverso un uso culturale e turistico dell’intera zona. Il progetto ha ormai ottenuto il beneplacito degli organismi europei, e l’Unesco ha dichiarato il parco un patrimonio culturale dell’Umanità.

Dopo anni, e pur in mezzo mille difficoltà e polemiche, finalmente il Parco è stato consacrato da una legge dello Stato e da un decreto ministeriale che proprio in queste settimane attende di poter divenire operativo. Dovrebbero avere così risposta anche gli oltre 500 lavoratori socialmente utili che in gran parte sono fuoriusciti dalle produzioni minerarie ormai terminate e che attendono di essere riutilizzati in altri settori. Ma la battaglia non è ancora conclusa, nonostante giganteschi passi avanti siano stati fatti e ancora si attenda la costituzione dell’organismo di gestione, che per il momento sarà provvisorio. Tale Comitato di gestione dovrà avviare le iniziative operative necessarie.

Uno dei protagonisti delle vicende del Parco, che si è battuto con determinazione per la sua nascita, tanto da attuare una lunghissima occupazione della miniera di Monteponi, a Iglesias, vivendo per quattro mesi all’interno dei pozzi, è Giampiero Pinna. «La millenaria attività di sfruttamento dei giacimenti minerari metalliferi ha avuto un fortissimo impatto sul territorio. Un disastro lasciato dalle compagnie minerarie, pubbliche in via residuale, ma soprattutto da quelle private italiane e straniere. In conseguenza di ciò è stato elaborato un piano di disinquinamento e di recupero ambientale da parte della regione nel 1997 per il quale occorrono mille miliardi, una cifra enorme».

Il primo obiettivo del Parco geominerario è pertanto quello di risanare il territorio, per poterlo utilizzare attraverso altre attività economiche e principalmente per la valorizzazione del patrimonio di storia, di cultura e di archeologia industriale. Si tratta di ottomila anni di storia che rappresentano una parte importante della cultura sarda. Ma allora, perché tante difficoltà sul Parco? Probabilmente solo per “diritti di gestione”.

Come ricorda ancora Pinna, «questo è un parco del tutto particolare, concepito in modo del tutto singolare dopo che l’Unesco ha riconosciuto l’area mineraria un patrimonio naturale di tutta l’umanità. Soprattutto si è cercato di evitare che fosse il risultato di un’imposizione caduta dall’alto, secondo la nota logica centralistica da parte dello Stato». Era inoltre indispensabile che il parco avesse un riconoscimento internazionale affinché lo Stato si assumesse l’incarico finanziario del risanamento, e di pagare i costi, come per altri parchi nazionali, della gestione, «però doveva anche nascere dal cuore della Sardegna e quindi con un diretto aggancio all’articolo 31 dello Statuto sardo, attraverso una legge nazionale di iniziativa regionale. Doveva essere il Consiglio regionale a presentare una propria proposta di legge – ricorda Pinna –. Volevamo un parco che, pure se finanziato dallo Stato, non avesse vincoli posti dallo Stato e quindi abbiamo scelto un altro strumento legislativo diverso da quello adottato per gli altri parchi».

Ma perché l’occupazione dei pozzi? «Quando è stata firmata la “Carta di Cagliari” con l’Unesco – si rammarica Pinna – c’era l’impegno di varare una legge apposita. L’iniziativa legislativa non è partita dal Consiglio regionale. E questa è una responsabilità della Giunta di centro sinistra. Dopo tre anni la proposta di legge è stata quindi presentata dai parlamentari sardi.Ma la legislatura stava finendo e vi era il rischio che la proposta decadesse. Per questa ragione ho fatto questa azione di protesta (quattro mesi in galleria). Alla fine questa legge è stata fatta, quindi abbiamo mosso il Parlamento, e sono uscito dalla miniera quando a Roma, attorno a un tavolo, si sono ritrovate tutte le istituzioni dello Stato: Governo, Regione, Province, Comuni per concordare il decreto istitutivo previsto dalla legge».

Ma l’orizzonte è carico di nubi.

“La nuova frontiera”. Potrebbe essere questo, dunque, l’incipit di una seconda puntata della “Storia delle miniere”. Una nuova frontiera che non mancherà – ne siamo certi – di incidere ancora una volta fortemente nella storia stessa di un’intera regione.