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Editoriale
di Gherardo Gherardini
Il pericolo nascosto dei rifiuti industriali

Il Piano regionale per i rifiuti speciali

Siti inquinati: i programmi di bonifica

Problema imballaggi: no alla filosofia dell’usa e getta
di Pietro Stagno
Un Mezzogiorno a propulsione segmentata

Nuove strategie operative per l’area vasta di Cagliari

 

Il pericolo nascosto dei rifiuti industriali
di Gherardo Gherardini

 

I fanghi rossi
I fanghi rossi, residui di lavorazione dell'Eurallumina,
e le scorie metallurgiche degli impianti ex Enirisorse
di Portovesme incidono per il 50% sulla produzione
copmplessiva di rifiuti speciali nell'isola.
Nella foto: cumuli di bauxite nello stabilimento
dell'Eurallumina a Portovesme 

Se non è una moda, poco ci manca. Oggi tutti si ergono a paladini della Sardegna e del suo presunto, incontaminato territorio. In realtà, scorie di ogni tipo (chimiche, metallurgiche, militari, forse anche nucleari) inquinano, deturpano, avvelenano la nostra isola.
Sostanze chimiche volatili, solubili ed immortali avvolgono il nostro habitat contraddicendo l’immagine “pulita” dell’isola, diffusa nell’immaginario collettivo come massimo elemento d’attrazione nel mercato turistico internazionale. Secondo Mario Carboni, esperto di problemi energetici ed ambientali, responsabile delle relazioni esterne del Crs4, il Centro di studi avanzati, ricerca e sviluppo presieduto dal Nobel Carlo Rubbia, siamo una delle terre più inquinate e contaminate del Mediterraneo. «Se si mettesse mano ad un monitoraggio che facesse piazza pulita di segreti, complicità, interessi inconfessabili decennali – sostiene – si scoprirebbero tutti i santuari nei quali sono state interrate in passato e continuano ad essere smaltite a tradimento le scorie di tanti lustri di industrializzazione colonialista».
Un’affermazione che potrebbe essere ritenuta azzardata, se non fosse confermata da tanti, preoccupanti episodi che si sono succeduti negli anni. L’ultimo, clamoroso, risale al luglio del 2003, quando un  gruppo di appartenenti ad “Indipendentzia” ha compiuto un vero e proprio blitz nella zona industriale di Porto Torres, in località Minciaredda, alle spalle del petrolchimico della Marinella. Si tratta di una quarantina di ettari dove in larga parte sono stati interrati, nel corso di una trentina d’anni, rifiuti tossici e nocivi e scarti di lavorazione di ogni genere. Un periodo che va dai tempi della Sir fino agli anni che hanno preceduto il varo di severe normative per la tutela dell’ambiente e della salute dei lavoratori e delle popolazioni.
La ruspa manovrata dagli indipendentisti sulla collinetta che guarda l’Asinara, a poca distanza da una bellissima spiaggia, ha portato allo scoperto un po’ di tutto: materiali ferrosi, residui di lavorazioni, catalizzatori a base di sali di nichel ed altro materiale che veniva utilizzato negli stabilimenti di Rovelli. Roba nociva, com’è intuibile, della quale bisogna ancora stabilire il grado di tossicità. Come dire: il danno all’ambiente è stato fatto, quello alla salute deve ancora essere valutato.
Se ne sta occupando la magistratura, ma anche il mondo della politica non è rimasto indifferente. Con gli indipendentisti si sono mobilitati i parlamentari Gabriella Pinto (Forza Italia) e Mauro Bulgarelli (Sole che ride), entrambi componenti della Commissione bicamerale sulle “ecomafie”. Sullo stesso fronte si sono schierati i rappresentanti di tutti i partiti presenti in Consiglio regionale, per sottolineare che la “collina dei veleni” è solo uno dei tanti nascondigli terrestri di rifiuti industriali presenti in Sardegna.
«La vera sfida – osserva l’assessore regionale della Difesa dell’ambiente, Tonino Dessì – si gioca non solo sulla scoperta dei siti inquinati, certamente essenziale, ma anche e soprattutto sulla bonifica ed il risanamento ambientale di territori che meritano di essere restituiti all’uso della collettività ed a nuove intraprese di sviluppo eco-compatibile».

Come si è mossa la Regione sarda?  «Approvando, con deliberazione della Giunta del dicembre 2003, il Piano regionale per la bonifica delle aree inquinate, così come prevede il decreto Ronchi del 1997», chiarisce l’assessore Dessì. Dai dati elaborati dagli uffici regionali si ricava che, in Sardegna, sono stati riscontrati 747 siti contaminati, di cui 404 da discariche di rifiuti solidi urbani, 169 da attività minerarie dismesse, 83 da stoccaggio di idrocarburi, 85 da attività industriali e 3 da amianto.

La
La produzione di rifiuti sanitari nell'isola incide solo
per lo 0,15% sulla produzione complessiva regionale
di rifiuti speciali, ma è costituita nella quasi totalità
da rifiuti speciali pericolosi. Nella foto: contenitori
in cartone per rifiuti ospedalieri trattati

La maggior parte dei siti contaminati è localizzata nella provincia di Cagliari (340 siti), seguono la provincia di Sassari con 162, quella di Nuoro con 144 ed infine quella di Oristano con 101. Per quanto riguarda i siti contaminati da amianto, sono tutti situati nella provincia di Oristano.
Lo studio elaborato dalla Regione contiene una dettagliata descrizione dei siti “industriali” bisognevoli di interventi di bonifica. Si tratta di un comparto omogeneo che comprende quelle aree che sono (o sono state) sede di attività industriali e che, per la natura intrinseca dei cicli produttivi presenti e dei rifiuti pericolosi (solidi, liquidi e gassosi) che vengono prodotti, sono potenzialmente in grado di innescare fenomeni di inquinamento di suoli, atmosfera, acque sotterranee e superficiali.
«Le fonti che abbiamo utilizzato per gestire la fase cognitiva dello studio – spiega Franca Leuzzi, direttrice del Servizio Gestione rifiuti e bonifica siti inquinati dell’assessorato regionale della Difesa dell’ambiente – consistono nelle comunicazioni inviate dai responsabili dello smaltimento, nello stralcio del censimento discariche (Cen.Di.) relativo allo stoccaggio dei rifiuti tossico-nocivi e speciali, nella consultazione degli archivi, negli atti autorizzativi e nelle ordinanze delle varie autorità, nelle risultanze delle analisi depositate presso l’Assessorato. Tutti questi dati sono stati integrati con le informazioni reperite mediante sopralluoghi e comunicazioni di privati cittadini».
 «Nel Piano elaborato dalla Regione – spiega l’assessore Tonino Dessì – sono state evidenziate le aree che, per natura dei processi produttivi, errate politiche ambientali, estensione, vulnerabilità delle matrici ambientali acque e suoli, presentano una maggiore probabilità di aver subito e subire fenomeni di contaminazione».
Nella nostra isola, i fenomeni di inquinamento sono fondamentalmente attribuibili all’industria chimica, petrolchimica e metallurgica. In virtù di questa considerazione è stato possibile restringere il campo di analisi agli agglomerati che ospitano queste tipologie di attività industriali: Portovesme (metallurgia), Macchiareddu, Sarroch e Porto Torres (petrolchimica), Ottana e Villacidro (fibre artificiali).
Le principali fonti di inquinamento che si possono trovare all’interno degli insediamenti industriali possono essere riassunte come segue:
– stoccaggio inidoneo delle materie prime;
– perdite degli impianti di trattamento;
– perdite dei serbatoi fuori terra ed interrati;
– perdite di sottoservizi e servizi igienici;
– perdite da officine e parcheggi;
– scarichi incontrollati sul suolo di scarti di lavorazione, fanghi, rifiuti solidi e liquidi;
– scarichi liquidi non trattati;
– emissione nel sottosuolo (accidentale e/o organizzata) di rifiuti liquidi;
– ricaduta degli aerosol emessi in atmosfera.

 

«Una problematica significativa inerente ai siti da bonificare – si legge nel Documento di programmazione economica e finanziaria per gli anni 2005-2007 – è rappresentata, oltre che dalle aree industriali nelle quali deve prioritariamente intervenire il soggetto che ha causato l’inquinamento, dalle aree minerarie dismesse, in cui sono emersi importanti fenomeni di contaminazione ambientale dovuti principalmente alle discariche. La piena operatività del Parco geominerario, storico ed ambientale della Sardegna consentirà di avviare azioni pilota per la sperimentazione di nuove tecniche di inertizzazione».

ll
Il ridimensionamento dell'industria chimica e delle fibre nell'isola ha sensibilmente ridotto l'incidenza
della produzione di rifiuti speciali (4%) sul totale regionale. Nella foto: gli impianti chimici di Sarroch
visti dalla strada Sulcitana 

La battaglia per cambiare volto alle aree inquinate, specie in prossimità dei litorali costieri e delle zone urbane, non è slegata dal problema più generale della gestione – passata e futura – dei rifiuti e del loro smaltimento. A cominciare dai rifiuti “d’importazione” che continuano a sbarcare in Sardegna. Su questo fronte, di recente, il Consiglio comunale di Sassari ha approvato una mozione che chiede la modifica della normativa che prevede l’ingresso nell’isola di scarti (rifiuti) industriali come materie prime. Il documento dell’assemblea municipale di Sassari prende lo spunto dalla vicenda della discarica di materiali tossici di Minciaredda per fissare l’impegno «di impedire nuove e devastanti forme di inquinamento ambientale», riferendosi in questo modo agli attacchi che possono derivare all’ambiente dalle “incursioni” possibili grazie ai varchi presenti nella legislazione regionale.
«Succede infatti – si legge nella mozione – che la legge regionale n. 6 del 24 aprile 2001 (che prevedeva il divieto di trasportare, stoccare, conferire, trattare o smaltire nel territorio della Sardegna rifiuti, comunque classificati, di provenienza extraregionale) sia stata modificata, quasi subito, dalla legge regionale n.8 del 19 giugno dello stesso anno. La nuova normativa ha stabilito che le disposizioni della precedente non si applicano ai rifiuti di origine extraregionale da utilizzarsi esclusivamente quali materie prime nei processi produttivi degli impianti industriali».
Il documento spiega che la legge originaria «ci metteva al riparo dalla possibilità che rifiuti di qualsiasi tipo, di origine esterna, potessero essere trasferiti nell’isola. La regola è stata, però, stravolta in ragione di cosiddette esigenze industriali, consentendo che qualsiasi genere di rifiuti possa essere importato e smaltito in Sardegna». Pur considerando l’apparato produttivo industriale un elemento fondamentale dell’economia isolana, i firmatari della mozione – e quanti l’hanno approvata – hanno escluso che il riciclaggio dei rifiuti pericolosi possa far parte di uno sviluppo compatibile con la salvaguardia ambientale. E conclude, il documento, con la richiesta della modifica della “seconda” legge, quella del giugno 2001.
Una richiesta dichiarata legittima dall’Ufficio regionale sul referendum, in risposta alle migliaia di firme raccolte da Sardigna Natzione, Rete Lilliput, Gettiamo le basi, Gallura no scorie, Verdi e Wwf. La data in cui si andrà a votare deve essere ancora fissata dal presidente della Regione, che dovrà emanare un apposito decreto. Resta comunque il fatto, importantissimo, della “chiamata” dei sardi ad esprimersi su un problema ritenuto da molti di vitale importanza.
«Non possiamo consentire che l’isola diventi una pattumiera, con la scusa della produzione industriale», dice il leader di Sardigna Natzione, Bastianu Cumpostu. «Negli impianti di Portovesme, per esempio, si trattano i pericolosissimi fumi di acciaieria per produrre irrisorie quantità di zinco». Stando a Cumpostu, i dati non giustificherebbero l’immissione delle scorie tossiche: «Si sforna solo il 7 per cento di metallo, a fronte di un 93 per cento di scorie delle scorie, migliaia di metri cubi di metalli pesanti quali cromo, nichel, piombo, cadmio, vanadio, cobalto, arsenico, che restano inesorabilmente in Sardegna». La soluzione che propongono gli indipendentisti è quella applicata a Malta, dove i residui della lavorazione sono restituiti al mittente, vale a dire le acciaierie, che si devono occupare dello smaltimento.

«Gli scarti del trattamento dei metalli pesanti non sono meno nocivi dell’uranio», ammonisce il verde Attilio Mura, consigliere dell’unico comune isolano che ha appoggiato ufficialmente il referendum, Nuoro. «Alle esigenze di salute dei sardi – si legge nella mozione approvata dal Consiglio comunale – si antepongono quelle di poche aziende che importano migliaia di tonnellate di rifiuti altamente inquinanti e pericolosi per recuperare modestissime percentuali di zinco». 
A fronte di un violento ricatto occupazionale – aggiunge Mario Carboni – il Consiglio regionale ha adottato una norma che, definendo materie prime quelle che in effetti sono rifiuti pericolosissimi ed altamente inquinanti prodotti fuori dalla nostra isola, permette che la Sardegna diventi la pattumiera del Mediterraneo». I consiglieri regionali che hanno approvato quella legge, certamente in buona fede, secondo Carboni forse non sanno di aver puntato alla tempia della Sardegna una pistola carica che potrà sparare in futuro anche rifiuti nucleari, anche se adesso spara “solo” pericolosi rifiuti di acciaieria».
Prosegue lo sfogo-denuncia: «Pochi sanno che le moderne schermature per fare le radiografie, negli ospedali e negli studi privati, utilizzano l’uranio impoverito e non più il piombo, come in passato. Secondo la legge che consente l’entrata di rifiuti di ogni tipo, che il referendum punta ad abrogare, qualunque industria che volesse utilizzare uranio impoverito in Sardegna, per fabbricare manufatti o munizioni, potrebbe importarlo come materia prima. Al limite, una nuova industria che volesse anche produrre in Sardegna uranio impoverito (che è una scoria della concentrazione dell’uranio U-235 quale combustibile per le centrali atomiche), oppure volesse trattare materiale nucleare esausto delle centrali ed altamente radioattivo, per recuperare nuovo combustibile U-235 da riutilizzare o sottoprodotti come il plutonio per usi bellici, producendo altre scorie finali da dover poi stoccare, potrebbe farlo senza violare la legge».
ll
I rifiuti speciali prodotti  dall'industria dei minerali
non metalliferi rappresentano oggi, dopo la chiusura
della  maggior parte dei  siti  produttivi, soltanto  il
4% della produzione  regionale. Nella foto: impianti
minerari dismessi nelle vicinanze  di Iglesias
Della questione dei “fumi” si è occupata anche la Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti, nella tornata di lavori di fine anno, con l’audizione del direttore generale della Federacciai, Salvatore Salerno, e del direttore tecnico Flavio Breganti. Una audizione intensa e ricca di spunti, immediatamente prima della tornata dedicata alla Sardegna, che dovrebbe caratterizzare tutto il mese di gennaio 2005. Durante la riunione, il presidente Paolo Russo, ha indicato il bivio davanti al quale la Commissione si è venuta a trovare:  «Vorremmo evitare – ha detto – che nel trovare una soluzione normativa che vada incontro alle legittime istanze produttive, si incorra in una sanzione dell’Unione europea».
Il problema per la Federacciai, e in seconda battuta per le aziende, come la Portovesme srl, che trattano i rifiuti delle acciaierie, i cosiddetti “fumi”, è decisivo: i rottami che arrivano nelle fonderie, e che da lì poi arrivano anche nei due soli stabilimenti che li possono trattare in Italia, Pontenossa e Portovesme, sono rifiuti oppure sono materia prima? La differenza è centrale, perché a seconda della lettura che si da cambiano parametri di valutazione, controlli e persino valori chimico-fisici cui far riferimento. Lo stabilimento di Pontenossa (Bergamo) per la Regione Lombardia è un impianto che svolge un servizio pubblico, perché elimina in parte il problema delle discariche, e per questo motivo viene difeso e tutelato, mettendolo al riparo dalle normative comunitarie.
L’analogo, ma più valido impianto sardo, è invece sottoposto ad una continua verifica da parte di Regione e Provincia, che secondo la Direzione dello stabilimento ne compromette in parte la capacità produttiva. Ma quale è l’origine della materia prima per Portovesme? Salerno ha illustrato alla Commissione i numeri ed i problemi del sistema siderurgico italiano: «La siderurgia oggi tratta 19 milioni di tonnellate all’anno di rottami, di cui cinque importati. Questa massa di rottami non solleva alcun problema per i nostri partners, ma non per il sistema italiano, dove i controlli sono asfissianti. Nelle altre nazioni non ci sono problemi a trattare rottami come i nostri: non hanno registri di carico e scarico e non formulari da compilare in quattro copie. Nel resto d’Europa la gestione crea meno problemi alle aziende e quindi, a cascata, a tutte le altre aziende del settore».
Ha aggiunto Breganti: «Siamo costretti a fare i salti mortali con l’interpretazione delle norme e per questo siamo arrivati al punto di dirottare le navi su quei porti italiani dove la normativa è meno restrittiva. Adesso si ipotizza di raddoppiare il sistema delle autorizzazioni: sarebbe un onere in più sui rottami e quindi sui fumi che trattiamo. Già oggi abbiamo procedure interne difficilmente compatibili con i flussi di volumi che riceviamo. Sarebbe il caso di pensare ad una norma che favorisca davvero l’industria italiana».
La Commissione parlamentare ha ascoltato ed ipotizzato soluzioni normative che rispettino le decisioni dell’Unione europea e non penalizzino eccessivamente l’industria legata al ciclo dell’acciaio. Resta il fatto che ad un esteso e ridondante sistema di controlli amministrativi non fa riscontro un analogo sistema di verifiche sul campo.
A questo proposito, non sorprende quanto sta accadendo proprio nel Sulcis, dove un gruppo di lavoratori del Pmp (Presidio multizonale di prevenzione) sta per finire davanti alla Commissione di disciplina della Asl non per inerzia nei controlli, ma per il motivo opposto. L’accusa nei loro confronti è infatti quella di essersi attribuiti funzioni di ufficiali di polizia giudiziaria (qualifica che altrove i tecnici della prevenzione hanno) e di aver irrogato sanzioni ad una azienda che non ha rispettato le norme. Commentano i lavoratori: a Portovesme non esiste un sistema di controllo efficiente, sanzionatorio e tempestivo. E se proprio ci deve essere, che resti sulla carta.
La “campana” aziendale suona naturalmente un’altra musica, rassicurante. In più occasioni è stata ribadita la sicurezza, dal punto di vista ambientale, all’interno della quale si svolgono i processi produttivi dello zinco. Anche recentemente, ai primi di gennaio, in sede di presentazione alle forze sociali dei programmi per il 2005, l’amministratore delegato della Portovesme srl, Carlo Lolliri, ha fornito ampie assicurazioni sul fronte del corretto utilizzo dei “fumi” e sul rispetto degli standard di legge. «Semmai – ha spiegato – i problemi potrebbero derivare dalla mancata certezza in merito all’energia elettrica a basso costo».
Per chiudere, qualche parola sullo scampato pericolo “scorie nucleari”. Un decreto del ministro delle Attività produttive, Antonio Marzano, risalente al 2 dicembre 2004, ha stabilito che le scorie nucleari più pericolose verranno stoccate all’estero. Si è così chiuso l’ultimo capitolo del caso, più mediatico che reale, scoppiato in Sardegna poco meno di due anni fa, quando una parte degli organi di informazione e del mondo politico diffuse la notizia che i rifiuti tossici attualmente sigillati a Corso (Latina), Trino (Vercelli) e lungo il Garigliano potessero sbarcare nella nostra regione. Adesso quelle scorie, preventivamente lavorate e predisposte, andranno in Francia o in Gran Bretagna, dove verranno stoccate, con una spesa per il nostro Paese di diverse centinaia di milioni di euro.
Attenzione, però: nel decreto si parla di stoccaggio provvisorio («fino a quando sarà pronto il deposito unico nazionale italiano»), perché gli accordi internazionali vietano l’esportazione definitiva, a tutela dei Paesi economicamente più deboli. Certo, il provvisorio potrebbe diventare “eterno”, ma i francesi o gli inglesi potrebbero anche stancarsi dei materiali sgraditi e rispedirceli indietro. E la Sardegna ricomincerebbe a tremare per la paura di diventare una “pattumiera radioattiva”.
Per ora, consoliamoci del fatto che lo stoccaggio provvisorio ci costerà caro. La società statale incaricata dello smaltimento atomico, la Sogin, si è vista tagliare cento milioni di euro dalla legge finanziaria, il che significa che parte delle spese saranno caricate sulle bollette Enel, dove già esiste una quota pro Sogin.