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Sommario

Salvatore Cherchi *
Editoriale
Lucio Piga
Per un nuovo sviluppo investire in risorse umane
a cura della redazione
Valorizziamo le nostre ricchezze
Andrea Saba - Banco di Sardegna
L'economia del Sulcis Iglesiente - prima parte

L'economia del Sulcis Iglesiente - seconda parte

L'economia del Sulcis Iglesiente - terza parte

 

Per un nuovo sviluppo investire in risorse umane
Lucio Piga

 

Speciale mezzo gommato della Carbosulcis per trasporto materiale in miniera
Speciale mezzo gommato della Carbosulcis per
trasporto materiale in miniera
Sembra il luogo dei contrasti e delle contraddizioni, dei conflitti anche aspri e dell’orgoglio dell’appartenenza territoriale e culturale, della mai accettata rassegnazione e della voglia di riscatto. Questo è il Sulcis Iglesiente. Segnato da secoli di retaggi minerari e culla della prima industrializzazione che la Sardegna abbia conosciuto, ma anche caratterizzato da antiche consuetudini agricole e pastorali della Valle del Cixerri e del profondo Sud Ovest, di Giba e San Giovanni Suergiu. Dopo la fine dell’epopea mineraria ed il ridimensionamento del comparto metallurgico, oggi stenta ancora ad uscire dal fondo di una crisi devastante. Ma non è un pugile stordito per il quale sia già suonato l’ultimo gong. Ha ancora valide carte da giocare. Ma deve fare presto; prima che i punti di forza ancora in suo possesso finiscano per diventare inutili ed invendibili. Non manca la forza di volontà, forse, e neppure le idee. Semmai serve una nuova capacità di cogliere il nuovo che avanza senza gettare alle ortiche le poche sicurezze esistenti.

È questo lo scenario aperto dal rapporto del Banco di Sardegna sul sistema economico e sociale di quest’area. Uno scenario per certi versi incerto e a tratti sconsolante, ma non privo di importanti positività; che dà il senso proprio di quelle contraddizioni cui si è fatto cenno. Il senso di un processo di trasformazione appena avviato, e lontano, almeno finora, dall’essere concluso. Una profonda trasformazione: dalla antica e solida cultura mineraria ed operaistica, dalla cultura dello stipendio fisso, a quella dell’impresa. Altre regioni ed altre aree del Paese hanno avuto l’avventura di vedere sfiorito un processo produttivo obsoleto e sapersi “riciclare”. Per le ex aree minerarie e per il Sulcis la sfida è aperta, perché anche esse hanno un grande patrimonio di cultura di impresa da far valere, che tuttavia non è ancora cultura imprenditoriale da sfruttare e mettere a profitto. Una sfida che dovrà essere giocata tutta sulla sua capacità di fare aggio anche delle apparenti contrapposizioni e disomogeneità.

Ma di quali contraddizioni si tratta?

Ad esempio il fatto, come emerge dal dossier che presentiamo in questo numero, che contro ogni aspettativa settori apparentemente poco vocati per quella zona riescano a far registrare risultati importanti: è il caso dell’agricoltura, che dalla antica marginalità sta conquistando una presenza significativa nell’insieme del tessuto economico; o, come accade anche per il settore dei servizi (Carbonia si sta affermando proprio come centro di riferimento e di polarizzazione). Ancora: che il sistema complessivo mostra un elevato grado di diversificazione della struttura produttiva che è seconda solamente alla più sviluppata area vasta di Cagliari. Ma poi, a fronte di questi aspetti positivi, troviamo però che è in atto un calo della produttività e del numero delle imprese; che il reddito medio dell’area è inferiore al reddito medio della provincia nel suo
Produzione di allumina a Portovesmeo
Produzione di allumina a Portovesmeo
complesso (anzi, fatta eccezione per i centri maggiori di Carbonia, Portoscuso, Iglesias e Sant’Antioco, gli altri paesi sono di gran lunga sotto la media); che è ricominciato alla grande quel fenomeno di emigrazione che aveva caratterizzato i primi decenni del dopoguerra; che la popolazione invecchia ed aumenta quindi il bisogno di investire risorse nei servizi e nell’assistenza, in presenza di una riduzione generalizzata degli investimenti complessivi. Ed ancora, per restare sul tema dei contrasti, quella che gli analisti del Banco hanno definito “dicotomia tra i centri maggiori” prevalentemente industriali, e gli altri, ancora estremamente legati al settore primario.

Certo sono ormai lontane anni luce le stagioni in cui il settore minerario e metallurgico poteva polarizzare il 90 per cento delle risorse prodotte, e assicurare un reddito complessivo di tutto rispetto. Stagioni per altro caratterizzate dalla forte dipendenza della grande industria dalle risorse pubbliche delle società a partecipazione statale, a cominciare dall’Eni. Un sistema economico e sociale in trasformazione, dunque, quello che emerge dal rapporto dell’Istituto di credito isolano e per il quale c’è da domandarsi dove esso stia andando e che futuro avrà. Ma prima è necessario comprendere da quale situazione si sta partendo, e soprattutto capire come si è giunti fin qui. Ed allora occorre partire proprio da quei dati negativi che il rapporto ci fornisce e che nel loro insieme ci mostrano un territorio alle corde, quando prima era leader dell’industrializzazione sarda. E subito affermare che sicuramente la crisi della grande industria è stata all’origine del declino del Sulcis Iglesiente, proprio perché non vi sono state efficaci contromisure: un’economia monoculturale, a senso unico, disarmonica e disomogenea. Parafrasando un vecchio film si potrebbe ironizzare in questo modo: «sotto il minerometallurgico niente di nuovo».

Ma, anticipando per brevi linee i dati delle prossime pagine, fotografiamo per rapidi tratti la situazione.

La prima cosa che salta agli occhi è la negatività dell’andamento demografico. Il territorio ha un forte saldo migratorio negativo, assai superiore al resto della provincia e della regione. Il bilancio demografico naturale è anch’esso fortemente negativo. Di fronte ad un dato positivo della provincia nel suo complesso negli ultimi due o tre anni, che anzi sembra avere andamenti sempre più soddisfacenti, il Sulcis, pur contenendo le sue performance negative, è ancora in “profondo rosso”, superando in negativo addirittura la media regionale.

L’andamento del reddito è drammatico. Mentre l’intera provincia è riuscita negli ultimi anni a crescere seppure per tassi minimali, l’area del Sulcis e dell’Iglesiente è fortemente deficitaria, non riuscendo a superare il tetto dei quattro quinti del reddito complessivo che si registra nel complesso della Sardegna.

Per quanto riguarda la struttura produttiva, di fronte a un netto predominio del settore commerciale, che in fatto di numero di imprese supera di gran lunga il settore industriale notoriamente settore trainante in questo territorio, sul piano occupazionale a fare la parte del leone è certamente l’industria, che è in cima alla classifica. I servizi e il commercio sono testa a testa in riferimento al numero degli addetti. In coda l’agricoltura, che tuttavia, come si dirà ancora, rappresenta una piacevole sorpresa in fatto di percentuale di crescita.

Il tessuto industriale è caratterizzato da una dimensione d’impresa (fatta salva ovviamente l’area industriale di Portovesme-Portoscuso) leggermente inferiore alla media provinciale (dati Confindustria, anno 2000), e tuttavia superiore al resto della regione Sardegna. Raffrontando il peso dell’industria e dell’artigianato, si riscontra ovviamente che il primo è di gran lunga superiore al secondo; e tuttavia anche l’artigianato mostra segnali di risveglio.

A proposito dell’interesse che sembra suscitare il settore agricolo, forse non solo come settore rifugio, alcuni dati diffusi recentemente dalla Associazione degli industriali della provincia di Cagliari confermano il dato importante e significativo degli addetti nel settore agricolo, la cui media supera di gran lunga la media della provincia e della stessa regione nel suo complesso, e che si pongono in linea con la analisi del dossier del Banco.

E sempre da fonte delle imprese, la produttività delle imprese del Sulcis registra un indice dei ricavi mediamente molto al di sotto della analoga media regionale, poco meno di un terzo al di sotto. Altrettanto dicasi per l’indice del valore aggiunto, che mediamente non raggiunge neppure la metà del dato fatto segnare dalla Sardegna nel suo complesso.

 

 

Declino senza alternative

 

Il presidente del Banco di Sardegna, Antonio Sassu
Il presidente del Banco di Sardegna, Antonio Sassu
Come ricorda il presidente del Banco di Sardegna, Antonio Sassu, «il declino del Sulcis Iglesiente deriva essenzialmente proprio dalla crisi della grande industria e dal fatto che ci si trovava in presenza di una monocultura produttiva. Fino ad allora, ad iniziare dal settore minerario, veniva assicurato un certo numero di occupati, e quindi di stipendi, e quindi un reddito relativamente elevato rispetto ad altre aree in cui non c’era una occupazione fissa. Nel momento in cui, per vari motivi in parte legati a fattori internazionali (non solo nazionali, sicuramente, e tanto meno regionali), la grande impresa è venuta a mancare è chiaro che il numero dei posti fissi che esistevano si è ridotto notevolmente con tutte le conseguenze evidenti a cui si è dovuto assistere negli ultimi dieci quindici anni».

Sulla stessa linea d’onda l’assessore regionale al Turismo, nonché iglesiente doc, Roberto Frongia, per il quale l’area del Sulcis Iglesiente denuncia ormai uno stato di profonda crisi «perché per troppo tempo il sistema produttivo si è fondato sulla monocultura mineraria e metallurgica, e pertanto quando questa è entrata in crisi è imploso l’intero sistema economico”. «La crisi di Portovesme, dovuta a costi energetici sempre maggiori e al problema dello smaltimento dei rifiuti industriali ha messo in ginocchio tutto il territorio».

Anche per Sergio Usai, della segreteria regionale Cgil, che del declino dell’industria mineraria e metallurgica ha vissuto gli anni più bui, la crisi del Sulcis coincide con l’avvio dei processi di dismissione delle attività tradizionali, in particolare quelle minerarie metallifere.

«A questo – dice il sindacalista – si aggiunge la crisi e il declino delle ex Partecipazioni statali, che hanno interessato praticamente l’intero assetto industriale. In questa fase vi è stata una difficilissima fase di confronto sindacale e di concertazione che ha determinato, da una parte, l’abbandono di interi settori economici, dall’altra, l’avvio di pesantissimi processi di ristrutturazione delle produzioni metallurgiche che erano tutte a capitale pubblico. Questa fase è cominciata all’inizio degli anni Ottanta, si è conclusa nel 94. In questo frattempo si sono create le condizioni per una dismissione di interi apparati produttivi che hanno interessato impianti forti di oltre 7 mila addetti. Questi processi sono andati di pari passo con la liquidazione delle Partecipazioni statali e con l’avvento delle privatizzazioni».

L'assessore regionale del Turismo, Roberto Frongia
L'assessore regionale del Turismo, Roberto Frongia
Secondo Usai tuttavia questo processo, di per sé atteso per dare maggiore efficienza all’impresa, è rimasto zoppo: «Non si è avuta la nascita e l’avvio di quel processo di ricostruzione economica indicata da alcune leggi: le leggi della reindustrializzazione dei territori minerari. Gli accordi erano stati siglati con solenni impegni dello Stato, delle Giunte regionali che si sono succedute in tutti questi anni; resta il fatto che dei 7 mila posti precedentemente esistenti ne sono stati recuperati al massimo circa mille. C’è quindi da registrare – sottolinea Usai – un gravissimo deficit occupazionale. Perché molte aspettative erano state riposte nella nascita, a valle del settore industriale metallurgico, di piccole e medie imprese manifatturiere. La situazione è invece assolutamente deludente. Non si è creato il tessuto economico sostitutivo della grande industria».

«Assistiamo ancora alla produzione di oltre il 70 per cento dell’intera produzione nazionale di piombo zinco e alluminio – sostiene il sindacalista – ma di tutto ciò non siamo in grado di verticalizzare alcuna produzione. E quindi tutto il nostro apparato svolge un servizio all’economia generale, ma non dà adeguate ricadute alla nostra area. Uno dei fattori che dovrebbero essere aggrediti da parte di tutti i soggetti (imprese, istituzioni, credito, scuola) dovrebbe essere quello della nascita di una nuova classe imprenditoriale. Perché imprenditori non ci si improvvisa né si nasce; sono le condizioni ambientali, culturali, economiche generali, le vere infrastrutture che consentono la nascita di una classe imprenditoriale. In questo caso lo studio del Banco di Sardegna fa una analisi brutale ma molto fondata. Bisogna partire dalla scuola e dalla formazione, anche con un apporto decisivo da parte delle università. Non si tratta di formazione professionale di medio livello. “Costruire manager” e co­strui­re impresa presuppone requisiti di carattere tecnico, culturale e di carattere sociale di grande rilievo. La prima cosa da fare è questa».

Il fatto è che, spiega ancora il professor Sassu, a fronte di una elevata cultura tecnico industriale, non si è realizzato quel processo di incubazione d’impresa che ci si sarebbe potuti attendere. «In questa zona c’è un tessuto sociale caratterizzato da una qualificazione professionale relativamente più elevata rispetto ad altre aree della Sardegna. C’è una cultura industriale e questo sicuramente dovrebbe aiutare a creare nuove imprese. Io credo anzi, e questa è stata una mia sorpresa, che avendo avuto un’antica esperienza di impresa, così diversa rispetto a quella delle altre zone della Sardegna, ed essendo elevata la cultura industriale, ci sarebbero dovuti essere molti più imprenditori, piccoli e medi, di quanti in effetti non ce ne sono. Ma, soprattutto negli ultimi 20 anni, la politica dell’assistenza è stata forte. Dapprima i molti interventi di cassa integrazione, poi gli interventi pubblici definiti ammortizzatori sociali, i contributi per disoccupazione hanno influito sicuramente in modo negativo sulla iniziativa privata e molti si sono adagiati. Anche il fenomeno del lavoro nero che ci si potrebbe attendere, non è mai particolarmente forte e intenso. Tuttavia, qualcosa sembra cominciare a muoversi. Sta potenziandosi, sembra, l’attività artigianale. Ciò fa sì che le nuove imprese cominciano ad essere più numerose rispetto alla media regionale e il loro numero è particolarmente elevato anche rispetto alla media italiana.

Le capacità tecniche, nel senso di capacità di lavorare nell’impresa, di saper fare il mestiere – ricorda il presidente del Banco –, sicuramente ci sono; si tratta di fare un passo in avanti per quanto riguarda la capacità manageriale. «Per ciò bisogna confrontarsi con il mercato, ma questo per il momento non c’è stato per vari motivi. Prima di tutto per quello che si diceva, e cioè che ha persistito a lungo la cultura del lavoro dipendente, dell’impiego, del posto fisso. Non vi è stato, se non in misura molto limitata, quel fenomeno che viene chiamato “Spin off”; cioè il processo di nascita di nuove imprese a seguito dell’uscita di lavoratori dalla grande impresa; per diventare a loro volta piccoli imprenditori che lavorano per la grande impresa. Questo non c’è stato se non marginalmente, limitatamente alle attività di installazione di impianti, ma una volta finiti questi non c’è stato decentramento della attività produttiva».

Il sindaco di Carbonia, Salvatore Cherchi
Il sindaco di Carbonia, Salvatore Cherchi
È un’analisi che molti condividono, come ad esempio il sindaco di Carbonia, Salvatore Cherchi, per il quale «il tasso di imprenditorialità nel territorio è assolutamente basso e insufficiente a creare, almeno per ora, nuovo sviluppo. È paradossale che ciò avvenga in un territorio che per antonomasia è una zona a caratterizzazione industriale. Questo è avvenuto perché è mancata la cultura dell’imprenditorialità, visto che la cultura d’impresa, del lavoro industriale fa parte invece dell’anima di questa zona».

Probabilmente, come avverte Paolo Collu, sindaco di Iglesias, si risente ancora di un’antica cultura dello stipendio fisso, del lavoro dipendente, assimilato in decenni di esperienza mineraria alla quale intere generazioni sono state educate: il nonno che lavorava in miniera, lasciava il proprio posto al padre, e questi al figlio.

«Poi è sopraggiunta la crisi – ricorda Collu – alla quale non è stata preparata un’alternativa valida, non sono stati creati modelli nuovi e ciò ha prodotto enormi difficoltà. In linea di massima non si può negare che sia mancata quasi del tutto una vera cultura d’impresa». Probabilmente questo ha inciso più ad Iglesias, città di antiche e nobili tradizioni, ma forse anche anagraficamente più matura, che a Carbonia, città giovane e con forze in genere giovani. «Probabilmente è anche accaduto – afferma il sindaco iglesiente – che con il sopraggiungere delle difficoltà e con la perdita del potere contrattuale della classe operaia, la vecchia certezza del posto di lavoro ha eliminato la voglia di industriarsi, è in qualche modo mancata la creatività. Iglesias si è isolata da sola. Ora è il momento di marciare uniti con le altre città per riconquistare il terreno perduto».

Non esattamente convinto che non ci sia oggi una spinta creativa e proiettata al futuro è Mario Crò, della Uil regionale. Per il sindacalista, «che la cultura mineraria abbia rallentato nuove idee è vero solo in parte, perché sulla base della nostra esperienza, posso affermare che i giovani si muovono. Il fatto è che non ci sono troppo spesso le condizioni ambientali adatte, il sostegno necessario, una adeguata informazione e preparazione».

 

La programmazione negoziata

Scomponendo per fasi la storia industriale del Sulcis Iglesiente, si può affermare, in linea di grande massima, che dopo la crisi delle miniere e l’espansione del polo metallurgico, è lentamente sopraggiunta un fase di profonda stagnazione. La prima fase aveva coinciso, nel dopoguerra, come ricorda Cherchi, con l’impresa a capitale pubblico, con l’avvento delle Partecipazioni statali.

Il sindaco di Iglesias, Paolo Collu
Il sindaco di Iglesias, Paolo Collu
Ma anche, diremmo noi, con gli interventi della Cassa per il Mezzogiorno, con i primi interventi infrastrutturali per l’acqua, dall’irrigazione della Valle del Cixerri alle dighe del Sulcis. Con le nuove opere di viabilità. Ma anche, per tornare al settore industriale, con la nascita del polo dell’alluminio, di dimensioni strategiche mondiali. Il disimpegno delle Partecipazioni statali avvia un processo di ripiegamento anche per quanto concerne l’afflusso di risorse da parte dello Stato. Il confronto è duro anche dopo lo sbarco nell’isola di mezzo Governo. Sono i primi anni Ottanta. Anni di grande tensione e preoccupazione per il comparto minerario che ormai da tempo versa in una crisi profonda. Si dovrà arrivare al decennio successivo per vedere la fine definitiva delle miniere piombozincifere e la razionalizzazione e ristrutturazione del polo metallurgico e dell’alluminio, e la privatizzazione dell’intero comparto primario.

Nasce così la programmazione negoziata, ricorda Cherchi, che sostituisce l’intervento delle Partecipazioni statali e l’intervento pubblico. «Si può in questo modo impostare uno sviluppo dal basso. Prima al territorio si guardava come un deposito di risorse da prelevare e portare fuori. Ora si guarda ad esso come uno scenario potenziale di sviluppo in loco. Ora gli enti locali devono progettare. Muove da loro l’ideazione degli interventi, ma ciò richiede enti locali più forti. La programmazione negoziata può dare risposte alla crisi anche perché si parte da un tasso di industrializzazione elevato».

Certo, viene precisato da più parti, i ritardi ci sono. Le politiche strumentali della programmazione dal basso sono attuate lentamente, sono state in prevalenza solo impostate, ma gli strumenti concreti non attuati. I risultati tardano a vedersi anche se qualcosa sembra muoversi, come sottolinea Antonello Corda, della Segreteria regionale della Cisl. «Col primo contratto di programma sono state già cantierate iniziative per circa 800 posti di lavoro nel territorio. Nel frattempo, stiamo completando il secondo contratto di programma. Credo che la concertazione della programmazione rappresenti uno strumento estremamente valido. Definisce azioni precise che valorizzano i soggetti locali individuando e selezionando i progetti di maggior interesse e di maggior ricaduta economica».

Dello stesso avviso Mario Crò, segretario territoriale della Uil: «Abbiamo cominciato a fare proposte quando entrarono in crisi le miniere. Fu firmato un accordo di programma che prevedeva la nascita di iniziative produttive mirate alle piccole e medie imprese. Ma la deindustrializzazione non c’è stata. Le risorse dello Stato erano a disposizione ma non si è creato un sistema adeguato di controllo. Alcune iniziative sono nate, ma a parte che erano numericamente insufficienti, sono ben presto entrate in crisi. Vale a dire che gli strumenti di programmazione erano efficaci ma è mancata la capacità di individuare iniziative e imprenditori credibili e seri».

«La modalità della attuale programmazione è una modalità che a me convince molto, perché si fa programmazione anche modificando la cultura della gente – precisa il Presidente del Banco – perché nel momento in cui metto insieme il partner sociale e imprenditoriale, gli enti pubblici e faccio “partenariato”, io faccio crescere la maturità economica e civile della gente. Su questo insisto molto: non c’è nessuna impresa che cresce se non c’è attorno anche un tessuto demografico che capisca il problema. Se questo non avviene, si creano le tensioni sociali. Perché in altre regioni in cui c’è industria non ci sono tali tensioni? Perché tutti condividono l’importanza del guadagno, del profitto della crescita economica che sono valori condivisi da tutti. Anche i sindacati ai primordi in Sardegna nelle grandi vertenze distruggevano le macchine e le fabbriche, cosa che non hanno mai fatto nel Nord dove sono anche più forti. È una maturità civica ».

Convinto che la programmazione negoziata dia risultati estremamente positivi è il sindaco Collu. «I Piani integrati territoriali, gli accordi di programma stanno cominciando a prendere corpo. Siamo arrivati ai piani di fattibilità. C’è da attuare il grande lavoro del recupero dei beni minerari. Purtroppo la Regione sta ritardando le cose. Occorre dare ai comuni grandi e piccoli opportunità adeguate. Mi dispiace solamente che nell’arco di quattro anni non si possa riuscire a fare tutto ciò che si è impostato».

 

Che fare?

Riconquistare il terreno perduto, dunque; ma come? C’è la volontà, ma su quali leve agire? Facendo un poco il punto si può così semplificare: il territorio è caratterizzato dalla presenza di un polo industriale di grande importanza che è quello di Portovesme, che pur con tutte le vicende a volte anche difficili è comunque una realtà importante non solo per il sistema produttivo dell’intera zona ma addirittura per tutta la Sardegna. Da un’altra parte ci sono alcune significative sorprese rappresentate ad esempio dal comparto agricolo che ha conquistato d’autorità una sua visibilità, e che sorprende positivamente per la sua vivacità. C’è infine un importante risorsa ancora vergine e dalle grandissime potenzialità di sfruttamento economico rappresentata dalle risorse ambientali in proiezione del possibile sviluppo turistico e dell’indotto agroindustriale e artigianale. Due domande: sono compatibili questi tre fattori di sviluppo? Come agire per avviare un processo di crescita fondato su di essi?

Gianni Biggio, presidente dell'Associazione industriali di Cagliari
Gianni Biggio, presidente dell'Associazione industriali di Cagliari
Una prima risposta dagli industriali. Il polo industriale di Portovesme si è riqualificato, produce reddito e ricchezza e va salvaguardato anche perché esistono le condizioni per una produzione non più inquinante come in passato. «Occorrono decenni per costruire il patrimonio industriale, pochi mesi per chiuderlo», ricorda Gianni Biggio, presidente della Associazione degli industriali della provincia di Cagliari. Nato ed a lungo vissuto nel Sulcis, è categorico: «L’industria (sia una volta quella mineraria, sia oggi quella metallurgica) è una presenza importante. L’industria ha fatto maturare enormi capacità. Certo però che la cultura imprenditoriale si sta creando adesso. Quanto alla compatibilità fra industria, agroindustria e turismo, non si può fare a meno di confermare che la coesistenza è perfettamente possibile. Da soli turismo e agricoltura non possono garantire, senza l’industria, uno sviluppo economico e produttivo accettabile». Gianni Biggio ritorna su un suo vecchio concetto a lui caro, e ricordato anche recentemente ad un convegno sullo sviluppo del Sulcis: «Bisogna credere fermamente nella compatibilità e nell’utilità di una integrazione fra i diversi comparti e livelli d’impresa. Anzi, la grande industria e le piccole e medie imprese costituiscono un reciproco volano di sviluppo e di crescita economica e sociale dei territori d’appartenenza. Certamente è da rigettare e combattere l’antindustrialismo che si sta radicando in Sardegna».

Più cauto egli appare sulla seconda risposta, sulla contrattazione territoriale: «Generalmente gli strumenti di concertazione giovano allo sviluppo del sistema infrastrutturale».

Sulla linea della difesa del tessuto produttivo attuale è Mario Crò, della Uil. «Quello che abbiamo va difeso – afferma il sindacalista –. Certo, dobbiamo pensare anche a cosa costruire. E in questa direzione è vero che altri settori come l’agricoltura, o i servizi, o ancora il turismo sono comparti che possono dare un grosso contributo al rilancio dell’intero sistema produttivo. Questo non deve significare l’abbandono dell’industria, che è il settore basilare per qualsiasi modello di sviluppo si intenda realizzare».

Per Antonio Sassu, «tutti i fattori posso rientrare nel processo di sviluppo sostenibile». Ma quali chance hanno i nuovi settori produttivi agricoltura-turismo-servizi di sostenere uno sviluppo compatibile? Sassu è categorico: «Questi settori possono diventare elemento di sviluppo economico se riescono ad essere sistema. Questa è la chiave che ripetono molti: ma una cosa è dirlo ed un’altra è farlo».

Ed aggiunge l’economista: «Se noi pensiamo al Parco geominerario, se pensiamo all’attività di produzione e di trasformazione agricola, se pensiamo al turismo, vedo in questi tre settori elementi di sinergia di uno sviluppo che non rovinano o possono non rovinare l’ambiente. Le attività dei processi agroalimentari sono assolutamente complementari con il turismo. Guai se il turismo si limitasse solo all’attività alberghiera e di ristorazione. I turisti non vengono solamente per vedere nuovi luoghi e nuovi ambienti e trovare relax in alcune stupende spiagge come quelle del Sulcis; vengono anche per vedere e godere delle cose tipiche locali, le cose che possiamo chiamare identitarie (i coltelli, ad esempio, o il legno). Ma penso anche a tutta l’attività agroalimentare, come l’attività casearia. In Sardegna esistono molti prodotti, ed i singoli piccoli produttori riescono sempre a vendere in loco tutto il prodotto che creano. Ma per fare il salto di qualità è necessario non vendere più solo sul mercato locale. Bisogna vendere in un mercato più ampio, nazionale, internazionale. I nostri imprenditori non hanno gli strumenti per affermarsi in questi mercati e pertanto non ci tentano neanche».

Eppure sono ormai sempre più numerosi gli imprenditori che riescono a sfondare nei mercati esterni all’isola.

«È vero, ma quelli che sono capaci, che hanno orizzonti più ampi e che tentano di affermarsi si trovano di fronte a una domanda che non riescono a soddisfare. La soluzione va ricercata in una sinergia e collaborazione fra produttori. In tal caso ciascuno può continuare singolarmente a fare i suoi prodotti, ad esempio nel settore del vino (il proprio canonau, il vermentino) ma stabilire regole, procedure di produzione, qualità, in modo che non venga modificato lo standard. E questo avrebbe sicuramente effetti straordinari. Questo discorso può essere fatto per tutti i prodotti identitari. Sono queste le prime cose da cui partire. Sappiamo fare bene queste cose. Non le sappiamo vendere perché ci manca l’organizzazione sistemica, ma è chiaro che se noi abbiamo un vantaggio comparato lo abbiamo in questi prodotti. Non lo abbiamo invece in prodotti che non abbiamo mai prodotto. Non voglio dire che non siamo capaci di produrre chips per l’Olivetti. Però accade che nel momento in cui mi manca l’Olivetti ed io sono venuto in Sardegna per produrre per l’Olivetti, nel venir meno della commessa, non so più a chi vendere chips».

Ma ciò significa che dobbiamo orientare la produzione verso i consumi finali?

«Non esattamente – precisa Sassu –. Significa che il mercato è necessario e non può essere rappresentato da un solo committente. Ciò accade prevalentemente nel caso dei beni intermedi ma per i beni sui quali ho sempre e comunque un vantaggio comparato perché lo so produrre meglio degli altri, il mercato lo trovo sicuramente; inoltre, abbiamo anche il grande vantaggio che in quanto identitari hanno una domanda perché ricercati. L’unico problema diventa quello di produrre in quantità tale e con uno standard di qualità omogeneo in modo da poterli vendere fuori. Turismo, agroalimentare e in parte prodotti manifatturieri, più Parco geominerario si integrano molto bene per imprimere un processo di crescita all’economia del Sulcis Iglesiente».

Il tempio di Antas, nel comune di Fluminimaggiore
Il tempio di Antas, nel comune di Fluminimaggiore
Sulla carta del Turismo quale perno dello sviluppo dell’area è convinto da sempre ovviamente l’assessore regionale Roberto Frongia: «È ormai giunto il momento di pensare ad un modello di sviluppo del tutto nuovo e totalmente diverso. Un modello di sviluppo imperniato sul turismo, che si articoli in modo equilibrato e sinergico con i settori dell’artigianato, dell’agricoltura e dei servizi, il tutto inserito in una visione corretta di utilizzo dell’ambiente».

In questo quadro rientra la questione del Parco geominerario. «In effetti il Parco – a proposito del quale vorrei ricordare qui l’ingegner Giulio Boi che fu uno dei primi a lanciare l’idea ed a porre il problema, idea condivisa perfettamente al punto che fu uno dei punti centrali del programma della Giunta comunale di Iglesias nel 1993 – può certamente essere tutt’oggi un’idea vincente. Tuttavia deve essere reinterpretata, rispetto alla fisionomia che sembrerebbe assumere in questi ultimi tempi. Il Parco non può essere – afferma Frongia – un’Agenzia che si occupa di tutto; deve essere coinvolta l’Igea in una azione sinergica di sviluppo del Parco».

«Liquidare di colpo il sistema misto pubblico-privato su cui era basato il sistema produttivo del territorio forse non è stato un bene – premette Tore Cherchi –; mai, in nessuno Paese, ciò è avvenuto. A questo punto, tuttavia, occorre un’attenta programmazione ed un uso delle risorse pubbliche per creare un sistema infrastrutturale adeguato, occorre rendere operative e adeguate alle necessità le politiche di programmazione negoziata. Tutto ciò presuppone l’esistenza di istituzioni locali più efficienti, colte e agguerrite».

Estremamente concreto Usai, della Cgil. «Una prima importante leva da azionare è quella di assicurare collegamenti sicuri e non costosi del territorio con i mercati. Occorre cioè eliminare il deficit rappresentato dalla portualità, dalla viabilità, dalle strutture della rete ferroviaria che in quest’area sono decisivi. Il nostro grande handicap è che il trasporto delle nostre produzioni deve essere tempestivo e garantito. Oggi non è così. Ma non basta – secondo Usai –. Un altro dei fattori che può essere considerato decisivo è l’agroalimentare, ma perché possa essere proiettato verso una seria prospettiva, occorre agire sul livello della commercializzazione. Abbiamo bisogno di una struttura conserviera che verticalizzi le produzioni e che sia in grado di commercializzare. Abbiamo grosse potenzialità, un’alta qualificazione (settore caseario e zootecnico, carciofi, pomodoro, legumi). A differenza di altre aree, non vi è stato un abbandono di queste attività . Anche in presenza di una forte industrializzazione storica del Sulcis, queste attività di supporto si sono sempre intrecciate con il settore prevalente, non sono mai state marginali e hanno fatto da supporto all’industria. Tanto è vero che una nutrita colonia di operatori provenienti da altri territori dell’isola si è da decenni positivamente insediata nel Sulcis Iglesiente. Sconosciuto invece il turismo, che nel Sulcis è praticato attraverso una forma degenerativa come quello delle doppie case, che non fa economia di scala, non qualifica il sistema. Quanto al Parco geominerario, si tratta di una grande intuizione e di una grande potenzialità. Può essere la leva per il riscatto delle comunità minerarie. Perché racchiude in sé volumetrie, aree territoriali e potenzialità immobiliari straordinarie. Su questa vicenda non si devono aprire polemiche vuote. Però sul Parco geominerario pende l’handicap politico rappresentato dalla voglia di gestire le ingenti risorse sulle bonifiche minerarie».

Aggiunge, a questo punto, il rappresentante della Giunta regionale, Roberto Frongia: «Nonostante ci sia ancora tanto da fare, il Sulcis Iglesiente ha comunque fatto una precisa scelta. Con il progetto integrato territoriale, imperniato sulla misura 4.5, e cioè il turismo, la scelta è stata fatta. C’è, a questo proposito, un segnale sintomatico che conferma questa linea di tendenza dei soggetti decisionali del territorio: la richiesta avanzata di Carbonia, che ha ottenuto il riconoscimento di Comune a prevalente economia turistica (Iglesias aveva già tale riconoscimento). Sotto questo aspetto la Regione ha già avviato tutti gli atti necessari per sostenere tali ambizioni degli enti locali interessati attraverso i Pia, le iniziative infrastrutturali programmate, i Pit, con una azione di sostegno dei comuni».

Su un equilibrato sviluppo che non demonizzi l’industria, punta molto, come ricordato, la categoria imprenditoriale. «Il Sulcis Iglesiente – aggiunge il presidente della Associazione degli industriali della provincia di Cagliari – può essere territorio turistico ed industriale, ad alta qualità ambientale, capace d’attrarre risorse imprenditoriali, economiche e professionali. Serve però la consapevolezza dell’importanza del patrimoni industriale conquistato. Senza questi impianti e aziende avremmo una Sardegna più povera, più chiusa, più isolata».

 

 

Che cosa manca al territorio per il salto di qualità

 

L'incantevole spiaggia di Portixeddu, nei pressi di Buggerru
L'incantevole spiaggia di Portixeddu, nei pressi
di Buggerru
Per Sassu, «è difficile individuare un solo elemento; tutti i fattori ricordati possono lavorare congiuntamente per promuovere lo sviluppo. Ma occorrono vari fattori insieme. La cultura adatta. O c’è la cultura economica, la cultura per il profitto, per il guadagno, oppure uno non è indotto a fare le cose. Naturalmente questo è un discorso sulla cultura di carattere generale che deve pervadere tutta la popolazione, il tempo non può essere cadenzato come nell’età agropastorale. Il mercato è dinamico di per sé, quindi questo è cultura che cambia. Dopo di che c’è necessità di una serie di infrastrutture. Gli enti locali devono capire il problema oppure non c’è niente da fare. Sono tanti i casi di imprenditori che vengono da fuori, vogliono mettere su un’iniziativa, ad esempio un albergo, aspettano 10 anni per una licenza e non hanno neppure una risposta. O la Pubblica amministrazione è sensibile a questi problemi oppure non si può fare nulla».

È dunque solo una questione di cultura, o vi è un problema di risorse e infrastrutture?

«È ovvio che anche supponendo che si parta da una cultura positiva – dice Sassu – e ci sia una Pubblica amministrazione attenta, se partiamo da aree in cui i capitali non sono presenti e qui non sono presenti, è necessaria anche una normativa che faciliti l’incentivazione industriale. Come possa essere questa incentivazione industriale si può discutere».

«Si ritorna così alla programmazione negoziata – sostiene Paolo Collu – al ruolo dei comuni che, lavorando insieme e lasciando da parte le antiche divergenze anche campanilistiche ma ormai stantie, possono progettare e possono così contrattare le risorse necessarie con gli altri soggetti istituzionali, dalla Regione, allo Stato, all’Unione europea. Ironizzando, posso ripetere una battuta che ho già usato: preferiamo farci la barba da soli piuttosto che farcela fare da altri»

Secondo il Sindaco di Iglesias, si può promuovere uno sviluppo equilibrato, in cui non solo l’industria ma anche il turismo, i servizi, l’agricoltura possano avere un ruolo paritario e sinergico.

Dello stesso avviso, in buona sostanza, Antonello Corda, della Cisl, per il quale la programmazione negoziata, il ruolo degli enti locali nella regia del proprio sviluppo è fondamentale. «Lo strumento di concertazione – dice Corda – è validissimo ed anzi indispensabile. Il solo che consente di valutare gli interventi sul campo, da forza ai soggetti locali, permette di programmare adeguatamente lo sviluppo integrato rendendo compatibili i diversi settori produttivi. Abbiamo 33 mila disoccupati che vanno ricollocati attraverso politiche di sviluppo armonico».

 

La nuova Provincia

Entra in gioco a questo punto un fatto nuovo, che dopo anni di discussioni, polemiche e bracci di ferro fra fautori e contrari, fra soggetti istituzionali oggi è una realtà della quale non si può non tenere conto: la nascita della nuova provincia del Sulcis Iglesiente.

«Un fatto estremamente positivo se gli viene consentito di agire e governare lo sviluppo del proprio territorio con competenze adeguate», per Salvatore Cherchi non ci sono dubbi. «Abbiamo bisogno di un ente con personalità giuridica e poteri che possa raccogliere e mettere insieme le esigenze del territorio. È necessario un soggetto che attivi e mandi avanti i piani di sviluppo territoriale».

«Abbiamo dimostrato di poter produttivamente collaborare con Carbonia – precisa Paolo Collu – Perché siamo convinti che la nuova provincia possa rappresentare una marcia in più. La provincia sarà una risorsa, se sarà una provincia nuova. Deve assicurare equilibrio e pari opportunità a tutti i comuni del territorio. Deve assicurare decentramento. Ciò che sogno è vedere nascere con la nuova provincia una città da 140 mila abitanti, quanti sono gli abitanti del Sulcis Iglesiente, che si estende da Siliqua a Giba. I sindaci hanno determinato questa grande scelta, i sindaci uniti hanno fatto si che divenisse realtà».

Antonio Sassu condivide il giudizio positivo sulla nascita del nuovo ente intermedio, a patto che i soggetti politici riescano davvero a dare un ruolo significativo al nuovo soggetto che scende in campo. «Credo nel ruolo dell’ente locale – precisa Sassu –. Ce lo ha detto l’Unione europea nel momento in cui porta avanti interventi di sviluppo locale; perché, in effetti, programmi come Leader e Interreg non sono altro che programmi di sviluppo locale. E sono tutti gestiti dal basso, col coinvolgimento degli enti locali, quanto meno col coinvolgimento della Regione. Ma, in definitiva, tutti gli enti locali vengono coinvolti. Di per sé l’Amministrazione provinciale, anche a seguito della nuova normativa degli anni 90, ha gli strumenti per il governo dell’economia del suo territorio. Dipende ora solo dalla classe politica che il Sulcis Iglesiente sarà capace di esprimere».

Per certi versi in dissonanza l’assessore Frongia. «L’istituzione della nuova provincia non mi sembrava una possibile panacea di tutti problemi del nostro territorio. Inserire un nuovo soggetto amministrativo in un sistema che già aveva comuni, comunità montane comprensori e via discorrendo mi sembrava avrebbe potuto creare qualche difficoltà di organizzazione dei ruoli. Non ero convinto che sarebbe stata una soluzione. Detto questo, tuttavia – prosegue Frongia – si è dimostrato, anche con un referendum che non lascia dubbi, che i cittadini la pensano in modo del tutto opposto e così le amministrazioni comunali. Occorre tuttavia riscrivere il nuovo ente in modo da non creare nuovi conflitti e in modo da dare realmente efficienza al nuovo soggetto ed efficacia alla sua azione».

Per il rappresentante della Cgil, «la nuova provincia può essere la chiave di volta del Sulcis Iglesiente e potrà davvero rappresentare e portare avanti le nuove scelte dello sviluppo. Ad essa indicare i nuovi orizzonti che dovranno essere prioritariamente indicati dai soggetti territoriali, da tutte le forze politiche e sociali del Sulcis. In questo caso, affrancarsi da Cagliari potrà rendere giustizia di quelle scelte sulle risorse e di quelle decisioni che in tutti questi anni sono stati condizionati dagli interessi concentrati nel capoluogo. Sono ottimista, fortemente ottimista. Questi processi incoraggeranno tutte le energie e tutte le risorse presenti nel Sulcis Iglesiente a rimboccarsi le maniche».

Anche Mario Crò è ottimista. «La nuova provincia potrà essere sicuramente una risorsa in più perché più vicina alla gente ed al territorio. Certo che le forze sindacali avranno maggiore possibilità di essere uno stimolo efficace. Anche nel quadro della programmazione negoziata la Provincia può dare un importante contributo di sintesi per arginare il processo di declino del tessuto produttivo».

 

Dietro l’angolo

Morte le miniere, ridimensionato il settore metallurgico, ecco in definitiva che il Sulcis Iglesiente cerca un nuovo futuro. Novella araba fenice che risorge dalle sue stesse ceneri, tenta di ricaricare le batterie e ripartire per una nuova avventura, quella dell’impresa moderna, dei servizi, del turismo, dell’agroindustria, senza abbandonare l’antica tradizione industriale. Le opportunità si stanno via via scoprendo, alcuni esempi di nuove iniziative e di nuovo dinamismo vincente fanno oggi ben sperare. Resta l’interrogativo di fondo: se quella cultura deleteria del posto fisso sia superata; se nell’era della globalizzazione, della concorrenza, del mercato e quindi delle sfide, ci sia posto anche per gli eredi dell’epopea mineraria. Certamente, dalle interviste presentate e dai dati che il dossier del Banco ha elaborato, si denotano maggiore vivacità d’intrapresa e una dose più elevata di coraggio di rischiare. Probabilmente non basta, il divario è ancora notevole, dall’Europa, dal Paese, persino dalla stessa Regione; innanzitutto, per quanto riguarda l’efficienza della Pubblica Amministrazione e degli enti locali, la loro capacità e adeguatezza a stare al passo con l’evoluzione dell’economia e con il mercato. Sarà probabilmente decisiva la capacità che avremo tutti insieme, imprenditori o aspiranti imprenditori, grande industria, agenzie di sviluppo erogatrici di servizi ma anche di risorse finanziarie, comuni ed enti regionali, di trovare quelle intese e quelle sinergie positive per dare luogo ad un sistema produttivo equilibrato e proiettato sul mercato.

Si è parlato di programmazione negoziata e probabilmente sarà questa una delle opportunità oggi più appetibili per raggiungere qualche risultato. La nuova Provincia potrebbe essere il nuovo catalizzatore. Il cammino è certamente lungo, ma a Iglesias, a Carbonia, a Portoscuso, a Sant’Antioco, Giba, San Giovanni Suergiu e con essi in tutti i piccoli e meno piccoli comuni di questo territorio ci sono le potenzialità. Serve però che si trovi anche la giusta convinzione.