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Editoriale
Ugo Cappellacci
Piano Sulcis: una risposta straordinaria alla crisi
Paola Ferri
Un'area in crisi senza redditi di lavoro
Gherardo Gherardini
Portovesme: un polo vitale per l'economia del territorio

Ripresa del Sulcis: il parere di Confindustria
Gabriella Lai
Un piccolo Piano di Rinascita per il rilancio del territorio
Alberto Monteverde
Parco geominerario: una risorsa per l'isola
Documenti
Protocollo d'Intesa sul Piano Sulcis

Il contenuto redazionale è aggiornato alla data del 30 aprile 2013. Vietata la riproduzione, anche parziale, del testo e l'utilizzazione di questo numero monografico in incontri, convegni, seminari, se non previa autorizzazione scritta dell'editore.

 

Portovesme: un polo vitale per l'economia del territorio
Gherardo Gherardini

 

SARDEGNA INDUSTRIALE n. 1-2/2013 - 30 Aprile 2013

 

Portovesme: un polo vitale
per l’economia del territorio 

Il sogno industriale del Sulcis Iglesiente  sembra ormai avviato verso un inevitabile declino. La filiera dell’alluminio, che rappresentava la marcia in più del Sulcis a vocazione industriale, oggi è solo un pallido ricordo: produce cassintegrati e minaccia un diluvio di disoccupati entro l’anno. Costo dell’energia e mancato adeguamento delle infrastrutture, soprattutto quelle relative viabilità e trasporti, fra le cause principali della crisi della base produttiva del territorio. 

di Gherardo Gherardini    

Impianti esterni per il trattamento del carbone grezzo prodotto dalla miniera di Nuraxi Figus
Impianti  esterni  per  il  trattamento  del  carbone
grezzo prodotto dalla miniera di Nuraxi Figus
Il Sulcis-Iglesiente, la principale area sarda a vocazione industriale, dopo il picco massimo delle attività estrattive e metallurgiche raggiunto nel periodo bellico, ha conosciuto un progressivo fenomeno di deindustrializzazione a partire dagli anni 1948-1950.
Una prima fase ha visto la chiusura delle miniere carbonifere, a seguito degli accordi costitutivi della Comunità economica del Carbone e dell’Acciaio (Ceca).
Il settore minerario metallifero ha, invece, visto un lento declino, con una brusca accelerazione negli anni ’80, fino alla cessazione di ogni attività estrattiva.
Già nei primi anni ‘50 del 1900 fu affrontato il problema della riconversione e della reindustrializzazione. Per il settore carbonifero fu avviato un programma di sviluppo dello sfruttamento del carbone attraverso una filiera energetico-metallurgica, che prevedeva l’ammodernamento della miniera, la realizzazione di una centrale termoelettrica di grandi dimensioni e la posa di un elettrodotto sottomarino per l’interconnessione/integrazione con la rete nazionale, necessaria per eventualmente convogliare una parte dell’energia non consumata in Sardegna verso la penisola.
Come parte del progetto, fu anche realizzato un impianto di elettrolisi per la produzione dell’alluminio, come sistema per “accumulare” l’energia prodotta, sovrabbondante rispetto ai consumi regionali. Per completare il ciclo, venne anche insediato, nei pressi dell’impianto di elettrolisi, un complesso chimico per la trasformazione della bauxite di importazione in allumina. La filiera avrebbe dovuto essere ulteriormente sviluppata con la realizzazione degli impianti per le “seconde e terze lavorazioni” per la trasformazione in loco del metallo primario in semilavorati e manufatti.
Reparto elettrolisi nello stabilimento dell'Alcoa Trasformazioni srl, a Portovesme
Reparto elettrolisi nello stabilimento dell'Alcoa
Trasformazioni srl, a Portovesme
A seguito della nazionalizzazione della produzione di energia elettrica, l’attività mineraria carbonifera e le centrali passarono all’Enel. L’Ente elettrico cessò quasi immediatamente l’attività estrattiva, passando ai combustibili derivati dal petrolio e facendo mancare al settore dell’alluminio la logica di filiera basata sulle risorse locali del progetto originario.
La “verticalizzazione” della produzione di alluminio si limitò a due stabilimenti di semilavorati, che avrebbero dovuto trasformare circa il 20% del metallo primario prodotto.
Quanto all’attività mineraria metallifera, a fronte del declino segnato anche dall’abbandono del settore da parte dei privati, venne avviato un programma per l’ammodernamento degli impianti minerari, le cui riserve erano giudicate ancora interessanti, e per la realizzazione di uno stabilimento metallurgico per la produzione di zinco e piombo, che sarebbe stato in parte alimentato con minerali locali e in parte con minerali importati.
Avviato nel 1969, il programma fu completato alla fine degli anni ‘80 con la realizzazione di un impianto con tecnologie in linea – in quel momento – con la concorrenza mondiale.
Malgrado i massicci investimenti compiuti nelle miniere metallifere, l’attività estrattiva venne interrotta nei primi anni ‘80.
Un discorso a parte va fatto per l’attività mineraria carbonifera, ripresa alla metà degli anni ‘70 da parte dell’Eni, che in qualche modo recuperava l’impostazione originaria della filiera mineraria-energetica-metallurgica. Questa iniziativa prevedeva la costruzione di una miniera di carbone moderna, con costi di estrazione competitivi. Il minerale estratto avrebbe trovato il proprio impiego nelle centrali termoelettriche esistenti, costruite a seguito del piano originario degli anni ‘60 e successivamente nazionalizzate, debitamente attrezzate per l’impiego del carbone locale, di qualità mediocre e con un alto tenore di zolfo.
I lavori di preparazione della miniera di Nuraxi Figus (situata nel territorio comunale di Gonnesa) furono portati a termine alla metà degli anni ’80; seguirono il completamento degli organici e l’avvio di una limitata attività estrattiva. La produzione, miscelata con carbone di importazione, venne utilizzata dalle centrali Enel di Portovesme.
Da segnalare la forte opposizione all’impiego di questo combustibile da parte dell’Ente elettrico, costretto – per problemi di impatto ambientale – ad affrontare notevoli investimenti per adeguare gli impianti al rispetto delle norme sulle emissioni. La pressione delle popolazioni e l’impegno delle Amministrazioni locali e di quella regionale portarono a varare un piano per l’impiego “pulito” di questo combustibile, attraverso la sua gassificazione.
Il piano di fattibilità, predisposto da un’Associazione temporanea di imprese che aveva come capofila la Sondel e vedeva la partecipazione di imprese importanti come Falk, Ansaldo, Techint ecc., fu sottoposto al sistema bancario per un project-financing. I finanziatori, che non ritenevano adeguata la redditività del progetto “miniera-gassificatore”, lo respinsero.
A questo punto, le sole quantità di minerale ritirate dall’Enel per far funzionare le centrali di Portovesme si rivelarono ovviamente insufficienti a garantire l’equilibrio economico della gestione della miniera. Di conseguenza, senza la prospettiva dell’utilizzo della produzione carbonifera nel gassificatore, l’attività estrattiva divenne antieconomica e fu sospesa.
La Regione, diventata il maggior azionista della società mineraria carbonifera dopo l’abbandono da parte dell’Eni, decise allora di bandire una gara internazionale per la sua privatizzazione, all’interno di un progetto integrato dell’attività estrattiva e l’impiego del carbone per la produzione di energia elettrica.  Dopo alcune manifestazioni d’interesse, la gara andò deserta, perché gravata dall’incertezza sull’applicabilità al progetto dei benefici Cip 6.
Il resto, è cronaca dei nostri giorni. 

Il Nucleo industriale di Portovesme

Collocato sulla costa sud-occidentale dell’Isola, nel cuore del Sulcis Iglesiente, il Nucleo industriale di Portovesme è stato progettato, a metà degli anni sessanta, principalmente come zona di lavorazione e valorizzazione dei minerali estratti nel comprensorio retrostante, un territorio nel quale in quegli anni l’emigrazione stava provocando un drammatico calo della popolazione residente.
All’interno della zona industriale, proprio davanti al porto, erano già in funzione alcune centrali termoelettriche, tra cui la Centrale Sulcis. Il nome stesso di questa “supercentrale”, come veniva allora chiamata, è significativo della sua storia: dopo aver costituito per anni un obiettivo di lotta dei minatori (che individuavano nella costruzione di una centrale che utilizzasse il carbone come combustibile la possibilità di una ripresa produttiva del bacino), la centrale fu alla fine realizzata, ma venne alimentata con la nafta proveniente dalla Saras di Sarroch.

Anche l’obiettivo prioritario per il quale era stata programmata la zona industriale risultò modificato. Restò infatti in gran parte inattuato un insieme di investimenti proposto, alla fine degli anni 60, dal ministero delle Partecipazioni statali (il cosiddetto “pacchetto Piccoli”), che prevedeva la realizzazione di un’industria meccanica da parte dell’Eni (1.500 addetti) e altre iniziative per un totale di 5.500 posti di lavoro entro il 1975.
Di tutti i progetti, nel 1968 fu realizzato solo quello relativo all’elettrolisi dello zinco, l’impianto “Imperial Smalting” dell’Ammi Sarda, che utilizzando minerali locali produceva anche piombo, acido solforico e altri sottoprodotti.

Alcoa Trasformazioni,  Portovesme: controllo qualità materiale nel forno
Alcoa  Trasformazioni srl,  Portovesme: controllo
della qualità  del materiale nel forno

Agli inizi degli anni 70 venne avviata la costruzione degli impianti del settore alluminio, destinati a caratterizzare l’intero futuro polo. Il ciclo produttivo si articolava in due stabilimenti integrati fra loro: l’Eurallumina e l’Alsar, appartenenti entrambe – in buona parte – all’Efim.
L’installazione di questi impianti fu accompagnata dall’impegno della “creazione a valle” (come si usava dire in quei tempi) di una serie di industrie a più alto valore aggiunto e a maggiore intensità di occupazione. Di queste iniziative, l’unica poi realizzata fu la Comsal, che – appartenendo all’Eni, invece che all’Efim – fu causa di duri scontri fra i due gruppi pubblici.
Dal momento che il livello complessivo di occupazione stabile nella zona risultava assolutamente inadeguato, il movimento sindacale aprì una vertenza con le partecipate statali Efim ed Egam (partecipata statale del settore minerario). Una vertenza dura e con risvolti sociali drammatici, poi conclusa con la stipula di un protocollo d’intesa sottoscritto anche dalla Regione. L’accordo raggiunto prevedeva alcune migliaia di posti di lavoro entro il 1978, ma restò quasi del tutto lettera morta, nonostante le mobilitazioni dei lavoratori e la costante adesione popolare.
Alla fine degli anni settanta l’Efim presentò un progetto di ampliamento dell’Eurallumina, che prevedeva una spesa di 486 miliardi di lire per un’occupazione di 220 unità. L’iniziativa mirava da un lato a raggiungere un risparmio nei costi di produzione tramite l’economia di scala, e dall’altro lato a consentire la chiusura del vecchio impianto di Porto Marghera. Mentre a livello regionale si discuteva sul progetto (Regione e Sindacati chiedevano garanzie sull’utilizzo in loco di una quota consistente delle produzioni di base), l’Eurallumina decise di rinunciare all’iniziativa.

Eurallumina srl, Portovesme: attualmente non in attvità, l'azienda ha una capacità produttiva annua di 1.065 tonnellate di allumina
Eurallumina srl,  Portovesme: attualmente  non  in
attvità, l'azienda ha una capacità produttiva annua
di 1.065 tonnellate di allumina

Alla base della decisione stavano gli orientamenti negativi di alcuni soci esteri e, soprattutto, la sempre più drammatica crisi dell’Efim e della consociata società Mineraria Carbonifera Sarda (Mcs). Una crisi con motivazioni finanziarie e produttive. Finanziariamente, il gruppo pubblico era gravato da un pesantissimo indebitamento: su ogni chilo di alluminio prodotto pesavano ben 350 lire di interessi passivi. Sul piano produttivo, le difficoltà maggiori riguardavano i costi dell’energia elettrica, che costituiva un fattore determinante del ciclo di lavorazione.
Intervenne allora la “politica”, con una forte rivendicazione da parte della Regione della creazione di un “polo integrato dell’alluminio” e la ricerca di soluzioni per far fronte al caro-energia, ipotizzando l’utilizzazione del carbone Sulcis.
Come si vede, già allora – quando si pensava che l’ombrello delle Partecipazioni statali potesse proteggere da qualsiasi intemperie – i cardini su cui girava l’intera questione erano due, indissolubilmente legati fra loro: la difesa delle industrie di Portovesme e gli insostenibili costi energetici.
Negli anni successivi, con l’abbandono della mano pubblica e l’avvento dei colossi privati, i problemi si sono regolarmente ripresentati. O meglio: sono sempre rimasti gli stessi.
Dopo trent’anni e passa, l’esame delle vicende storiche ci consente di dire che quell’apparato industriale è il prodotto non solo delle scelte effettuate negli anni 60, ma anche il risultato dei processi di liberalizzazione e privatizzazione avvenuti negli anni 90. La grande industria della metallurgia (investita da profondi processi di trasformazione e ristrutturazione, che l’hanno resa competitiva) e il suo sistema produttivo sono sempre stati considerati  risorse strategiche da cui l’economia sarda non potesse prescindere. 


L’attività industriale

Lo scalo marittimo di Portovesme, terzo porto della Sardegna per volume di traffico, movimenta 5 milioni di tonnellate di merci all'anno, quasi tutte destinate alla vicina area industriale
Lo scalo marittimo di Portovesme, terzo porto della
Sardegna come volume di traffico, movimenta 5 mi-
lioni di tonnellate di merci all'anno, quasi tutte de-
stinate alla vicina area industriale
Il panorama industriale della zona è stato storicamente dominato da grandi società minerarie private, perlopiù straniere, nel settore metallifero e dall’industria di Stato nel settore carbonifero. La presenza della piccola e media industria locale è sempre stata limitata alle attività estrattive minori, in particolare i minerali non metalliferi, ed alla fornitura di alcuni servizi alle grandi imprese minerarie.
Negli anni 60-70 il settore metallifero vide l’abbandono dei privati ed il subentro della Regione Sardegna attraverso l’Emsa e dello Stato attraverso l’Egam.
Il processo di reindustrializzazione e riconversione avvenne in due fasi: la prima, a fronte della chiusura delle miniere di carbone negli anni 60-70 e la seconda, dopo la cessazione delle attività estrattive nel settore metallifero negli anni ’80/’90. Attori principali furono le Partecipazioni statali: l’Efim, subentrata negli anni 70 alla società Mcs, e l’Egam, alla quale subentrò l’Eni, sempre nello stesso periodo. L’Eni rilevò anche le attività che facevano capo all’Emsa (Ente minerario sardo) e, successivamente, l’attività carbonifera in capo all’Enel.
Gli anni 90 sono stati caratterizzati dalla privatizzazione dell’industria di Stato ed i nuovi attori sono diventate le multinazionali Alcoa per il settore dell’alluminio, Glencore per il settore piombo-zinco, Comalco per il processo di conversione della bauxite in allumina.
Un apporto limitato alla reindustrializzazione è venuto dalle piccole imprese private, attraverso il ricorso alla legislazione di incentivazione, prevalentemente regionale.
Le agevolazioni previste dalle leggi nazionali a favore delle aree minerarie per attrarre nuove imprese non hanno sortito l’effetto sperato: la mortalità delle aziende nate a seguito di queste agevolazioni è stata prossima al 100 per cento. Quasi altrettanto deludenti i risultati del Contratto d’Area stipulato nel 1999 tra Provincia e Governo.
Venendo alla parte dell’Area che qui maggiormente interessa, vale a dire il Nucleo industriale di Portovesme, esso costituisce – come abbiamo visto – l’evoluzione della locale industria minero-metallurgica, elemento portante dell’economia del Sulcis Iglesiente e polo di produzione di metalli non ferrosi più importante d’Italia e fra i più rilevanti in Europa.
Il complesso è costituito dalle seguenti installazioni principali (come vedremo, non tutte in esercizio):
– centrali elettriche, appartenenti all’Enel (un gruppo a carbone, un gruppo a letto fluido, due gruppi a olio combustibile), con una capacità totale di 900 Mw. Costituiscono uno dei principali poli di generazione di energia della Sardegna;
– impianto di produzione di alluminio primario, appartenente alla multinazionale Alcoa, con capacità produttiva di 150 mila tonnellate all’anno. Si tratta del principale stabilimento del suo genere installato in Italia;
– impianto di produzione di zinco elettrolitico (150 mila ton/a) e piombo (75 mila ton/a), appartenente alla multinazionale Glencore. Unico stabilimento operante in Italia per queste produzioni;
– impianto di produzione di allumina, appartenente alle multinazionali Glencore (45 %) e Rusal (55 %), con capacità produttiva di circa un milione e 200 mila ton/a. Si tratta dell’unico stabilimento in Italia per questa produzione;
– impianto per la laminazione e la verniciatura dell’alluminio, appartenente alla società Ila, con capacità di 24 mila ton/a (era l’unico stabilimento operante in Sardegna per queste lavorazioni, oggi oggetto di riconversione produttiva);
– porto industriale, che movimenta circa 6 milioni di tonnellate di merci all’anno, pressoché totalmente attinenti all’attività degli impianti metallurgici ed energetici. È il terzo porto della Sardegna per volumi di traffico.
Collegata al polo industriale, in quanto funzionale alla produzione locale di energia elettrica, opera la miniera di Monte Sinni (Carbosulcis), che costituisce l’unica attività mineraria ancora in esercizio nel Sulcis Iglesiente, nonché l’unica miniera di carbone operante in Italia.
Circa 80 ulteriori imprese, con i relativi impianti, sono installate nel Nucleo industriale e svolgono attività di manutenzione, logistica, fornitura di materie e servizi a supporto pressoché esclusivo delle aziende sopra descritte.
In stretto collegamento con queste attività operano diversi centri di ricerca e formazione. I principali fanno capo alla società Sotacarbo (unico centro di ricerca applicata in Italia per lo sviluppo delle tecnologie di impiego del carbone), all’Università Ausi (Associazione universitaria del Sulcis Iglesiente) e all’Igea (società per gli interventi geo-ambientali in house della Regione Sardegna).
L’economia del territorio è esposta alle fluttuazioni cicliche dei prodotti di base. La crisi economica e finanziaria prodottasi nell’ultimo triennio a livello nazionale e internazionale ha colpito immediatamente e pesantemente, determinando effetti a catena sulle piccole imprese, sull’occupazione e sui redditi dei residenti.

L’industria metallurgica oggi: un nodo da sciogliere

Il sogno industriale del Sulcis è ormai avviato verso un triste, inevitabile declino. La lista delle aziende in crisi o che negli ultimi anni hanno cessato l’attività, mandando a casa i propri dipendenti, costituisce un rapporto sociale davvero preoccupante. In pochi anni hanno fermato gli impianti aziende come Eurallumina, Ila, Sma, Cardnet e Rockwool. A cascata, centinaia di imprese artigianali hanno chiuso i battenti. Adesso, anche Alcoa sta per chiudere.
La filiera dell’alluminio, che rappresentava la marcia in più del Sulcis a vocazione industriale, oggi è solo un pallido ricordo, produce cassintegrati e minaccia un diluvio di disoccupati entro l’anno.
Eppure il settore non è certamente desueto, posto che l’alluminio è ancora fra i più importanti materiali per le produzioni nel campo degli imballaggi, dei trasporti, delle costruzioni e dell’elettricità. La multinazionale americana Alcoa, che ha deciso di abbandonare lo stabilimento di Portovesme, contesta la mancanza di infrastrutture e, su tutte, l’impossibilità di avere nell’isola il costo dell’energia come nelle altre regioni; per non parlare dell’impossibilità di far attraccare nei porti del Sulcis le navi di grandi dimensioni che trasportano la materia prima.
C’è chi dice che il Sulcis non ha mai avuto una classe imprenditoriale all’altezza della situazione, chi denuncia la mancanza di infrastrutture (strade, trasporti, porti e via dicendo), chi ancora incolpa la classe politica di incapacità di creare condizioni di competitività (agevolazioni e sgravi) in grado di attirare gli imprenditori.
Ma come non ricordare il sistema degli incentivi che, alla fine, hanno portato benefici solo alle imprese di prima trasformazione? E ha portato molti guai per i lavoratori, tenuti perennemente sotto ricatto e costretti a lotte estenuanti, a periodi di cassa integrazione con lo spettro di non tornare più al lavoro?
Opportunità sprecate, occasioni irrimediabilmente perdute.
Le speranze dell’oggi sono legate a quello che, con riferimento a strumenti del passato, è stato equiparato a un vero e proprio “Piano di Rinascita”, vale a dire il Piano strategico della provincia Sulcis Iglesiente denominato “Per il lavoro con un nuovo modello di sviluppo”. Questo Piano prevede che il comparto metallurgico continui a essere operativo, a condizione di vedere soddisfatte alcune condizioni che ancora oggi non lo sono. A cominciare dalla questione energetica.  

La questione energetica

Il commissario europeo per l'Energia, Günter Oettinger
Il  commissario  europeo  per
l'Energia, Günter Oettinger
È un dato ormai ampiamente assodato che l’intero apparato industriale regionale registri un elevato fabbisogno di energia elettrica, che ne condiziona la struttura. Se poi si aggiunge che nell’isola non esiste la possibilità di utilizzare il gas metano, è facile dedurre che gli imprenditori sardi marciano con l’handicap di dover utilizzare energia elettrica a un prezzo che, con un eufemismo, possiamo definire “anomalo”.
Ma è tutta la Sardegna a essere penalizzata: secondo l’ultimo rapporto della Commissione europea, nell’Isola cittadini e imprese pagano l’energia elettrica (il cui mercato è controllato al 95 per cento da Enel ed E.On) il 76 per cento in più, di media, rispetto al resto del continente europeo.
Ciò vale maggiormente per le industrie legate alla produzione dei metalli non ferrosi (zinco, alluminio, piombo), che necessitano di un elevato fabbisogno energetico.
Ne consegue che il costo dell’energia elettrica risulta essere il fattore che incrina maggiormente la competitività delle nostre produzioni, a causa della diversa incidenza di questo costo sui bilanci aziendali delle imprese, rispetto ai principali concorrenti internazionali. La situazione che si è determinata è oggettivamente drammatica, soprattutto per le imprese del polo metallurgico del Sulcis.
Polo che, da principale produttore di energia elettrica in Sardegna, ha visto il proprio ruolo messo in discussione non solo dalla comparsa di nuovi centri di produzione (Sarroch, Porto Torres), ma anche dalla carenza di investimenti coerenti con l’evoluzione dello scenario di utilizzazione delle fonti fossili, che nel futuro richiede la cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica.
L’emergenza del caro-energia per le industrie di Portovesme si è manifestata in maniera eclatante nel 2003, anche se già in precedenza gli operatori economici avevano ripetutamente cercato di richiamare l’attenzione delle autorità politiche regionali e nazionali. I provvedimenti adottati da allora a oggi, compresi quelli bocciati dall’Ue in quanto ritenuti aiuti di Stato, non sono riusciti ad assicurare alle industrie sufficienti garanzie sul regime tariffario. Una situazione di stallo assoluto che si è tradotta in una forte incertezza sugli investimenti di lungo periodo, in particolare nell’area industriale di Portovesme, dove le multinazionali hanno ribadito in più occasioni di non poter fare programmazione industriale senza usufruire di un prezzo dell’energia in linea con quello sostenuto dai concorrenti europei.
Il presidente della Ragione Sardegna, Ugo Cappellacci
Il presidente della Ragione
Sardegna, Ugo Cappellacci
La paradossale situazione degli altissimi costi dell’energia in Sardegna ha richiamato – ma solo nei mesi scorsi – anche l’attenzione dell’Autorità per l’energia, che ha deciso di avviare un’istruttoria conoscitiva. Nel rapporto relativo all’anno 2011, inviato al ministero dello Sviluppo economico, l’Autorità dichiara esplicitamente che in Sardegna si registra, in assoluta controtendenza con il dato nazionale, un aumento dei prezzi quantificato in circa il 28 per cento. «Nel corso del 2011 – è scritto nel rapporto – il differenziale dei prezzi ha subito una riduzione in Sicilia ed è rimasto pressoché stabile nella Penisola. L’unica criticità si è registrata in Sardegna, dove già nel 2010 il livello del differenziale era pari a circa tre volte rispetto a quello registrato nel Continente. Nel corso del 2011 si è inoltre verificato un aumento del suddetto differenziale di circa il 28 per cento rispetto all’anno precedente. Ciò ha reso necessaria un’analisi più approfondita del comportamento degli operatori nella predetta zona, nel corso degli ultimi due anni». In questo clima di perenne incertezza, in cui comunque il nodo dell’alto costo dell’elettricità resta ancora tutto da sciogliere, una relativa schiarita è arrivata ai primi di ottobre. Si tratta della decisione della Commissione europea di prorogare sino al 2015 il sistema dei servizi di interrompibilità (e super-interrompibilità) della rete elettrica delle due maggiori isole italiane. Sono così garantite per altri tre anni le compensazioni tariffarie per le imprese che accettino di acquistare energia interrompibile, cioè staccabile in caso di emergenza da parte del gestore della rete (fatto molto raro, peraltro). Questa energia costa di meno di quella non interrompibile e viene pagata con uno sconto sui prezzi di mercato.
«La proroga della misura, che vale uno sconto sino a 46 euro/megawatt sul prezzo base dell’energia – ha detto Salvatore Cherchi, presidente della provincia Carbonia Iglesias – è stata trainata dalla lotta per Alcoa, ma va a vantaggio di tutte le imprese sarde con consumi energetici importanti, sia le grandi come quelle dello zinco e del cloro-soda, sia quelle di media dimensione». Di tutt’altro avviso il deputato sardo Mauro Pili, secondo il quale «si tratta di una risposta tardiva che non consente di andare incontro nemmeno in parte alle richieste di qualunque serio operatore industriale, che per poter gestire uno stabilimento ha bisogno di una prospettiva energetica di almeno 10/15 anni».
La decisione della Commissione europea in materia di aiuti per abbattere i costi della bolletta elettrica, comunque, non modifica il quadro della “Road map europea per l’energia”, che contiene una serie di decisioni che dovrebbero inevitabilmente portare alla delocalizzazione dell’industria di base. Si prevede infatti un obiettivo di riduzione delle emissioni di anidride carbonica complessivamente pari all’80% entro il 2050, con l’azzeramento del contributo derivante dalla generazione di energia elettrica e la sostanziale riduzione di quello dell’industria. Queste decisioni sono operative da subito e comportano notevoli impatti sull’industria.
Lo scenario di spiazzamento dell’intera industria di base sul mercato globale è realistico e causerà un’accentuazione della spinta alla delocalizzazione delle produzioni ad alta intensità energetica. Occorrono quindi decisioni esplicite e coerenti dell’Unione europea dirette a salvaguardare le produzioni a rischio di delocalizzazione, che allo stato ancora non ci sono, in quanto non può essere considerata determinante la citata ammissibilità delle compensazioni tariffarie per il prossimo triennio.
In ogni caso, quand’anche l’Unione europea adottasse decisioni favorevoli, l’industria di base opererebbe nell’ambito di misure eccezionali rispetto alle linee di base e cioè in quadro tendenzialmente precario e irto di difficoltà.
Un quadro nel quale, comunque, la Regione Sardegna sembra avere le idee piuttosto chiare. «I nodi dell’industria sarda e le soluzioni sui temi dell’energia – ha dichiarato il presidente della Regione, Ugo Cappellacci, in occasione di uno dei tanti incontri romani al Mise – devono essere al centro dell’azienda nazionale». Anche per questo motivo Salvatore Cherchi ritiene che il Governo italiano, azionista di Enel, dovrebbe pretendere produzione di energia a prezzi europei. «In Europa – ha scritto di recente – la fonte energetica più economica, dopo l’idroelettrico, è il carbone. In Sardegna si produce energia elettrica da carbone a Porto Torres e Portovesme. A quali costi? In Europa il costo medio, capitale compreso, è di 5,5 centesimi a chilowattora. A Portovesme, il costo Enel è doppio, malgrado l’ente elettrico abbia ottenuto (con E.On) il cosiddetto servizio essenziale di rete, un riconoscimento che fa guadagnare decine di milioni di euro all’anno anche con impianti poco efficienti, a spese di cittadini e imprese».
E su questo tasto batte anche  Confindustria Sardegna. «È un dato incontrovertibile. È vero che il mercato è libero – ammette l'organizzazione degli industriali – ma per tutta una serie di ragioni siamo da sempre penalizzati. Finché non potremo disporre del Piano energetico regionale, il futuro energetico resterà sempre un’ipotesi. Se è infatti vero che se dovessero andare in porto tutti i progetti oggi sulla carta, nei prossimi anni potremmo avere un surplus di energia, è altrettanto vero che le diverse caratteristiche produttive potrebbero mettere in crisi gli attuali meccanismi di produzione, proprio per la mancanza del Piano».

 

Le industrie 

Portovesme srl

Colata di piombo fuso per la preparazione di pani
nello stabilimento della Portovesme srl
Nata nel 1999, in seguito alla privatizzazione dell’Enirisorse (gruppo Eni), fa parte dell’impero Glencore International A. G., multinazionale svizzera nella produzione di metalli. Lo stabilimento occupa una superficie di 70 ettari, dove funzionano i reparti elettrolitico e Kivcet; la fonderia è ubicata nel comune di San Gavino.
L’energia elettrica è la materia prima della fabbrica e i consumi hanno registrato una continua crescita, con conseguente aumento dei costi della bolletta elettrica.
Dopo uno stop produttivo di quasi tre anni, in cui si sono alternate speranze e cocenti delusioni, a fine luglio, nella sede del ministero dello Sviluppo economico, è stato finalmente sottoscritto il programma presentato dalla Portovesme srl per l’ampliamento del reparto elettrolitico e per favorire nuova occupazione. Un provvedimento di importanza fondamentale non solo per la fabbrica di piombo e zinco, ma anche per l’economia del Sulcis Iglesiente.
Una volta messa la firma, la multinazionale svizzera proprietaria della Portovesme srl, per la quale lavorano 650 dipendenti diretti e altri 500 nelle imprese d’appalto, ha potuto dare il via (in realtà, alcuni cantieri erano già stati avviati) al progetto di potenziamento della produzione. È previsto un investimento complessivo di 141 milioni di euro, di cui circa 18 a carico dello Stato.
Inoltre, come avviene nella maggior parte degli accordi che prevedono anche agevolazioni pubbliche per interventi privati, sono previste nuove assunzioni dirette in fabbrica (49).
Gli interventi da eseguire (e in corso) nello stabilimento prevedono l’ampliamento dell’impianto di ossido di zinco con tecnologia Sx per il recupero dello zinco. «Grazie al riavvio del Kivcet – sottolineano i dirigenti della Portovesme srl – il ciclo di lavorazione sarà incrementato. Un anello chiuso per il trattamento dei minerali e dei fumi di acciaieria, con processi sofisticati che ottimizzano i vari procedimenti e inviano in discarica rifiuti con tracce di metallo».
La produzione attuale di zinco, alla Portovesme srl, è di 110 mila tonnellate all’anno, ottenute per via elettrolitica: con il nuovo investimento si arriverà a 155 mila tonnellate. Gran parte della produzione di piombo andrà a San Gavino, dove si produrranno anche 50 tonnellate all’anno di argento e circa 20 chili di oro. Come sottoprodotto del trattamento dei minerali si ricava anche acido solforico: oggi se ne producono 250 mila tonnellate all’anno, nel 2012 si dovrebbe superare quota 350 mila.
Insomma, con i “ritocchi” impiantistici la Portovesme srl potrà diventare il polo integrato piombo-zinco più importante d’Europa. E, infine, non sussistono più preoccupazioni per gli scarti di lavorazione, dopo l’arrivo dell’autorizzazione dell’assessorato regionale all’Ambiente all’ampliamento della discarica di Genn’e Luas.
Ampie garanzie anche in merito all’eterno nodo da sciogliere, quello degli alti costi dell’energia. «Su questo aspetto – dichiara l'allora assessore regionale dell’Industria (ora della Programmazione), Alessandra Zedda – dal ministero è arrivata l’assicurazione che i sostegni in materia di tariffe elettriche, riconosciuti alle altre industrie energivore, verranno estesi anche alla fabbrica del gruppo Glencore».
E una schiarita pare sia arrivata anche in merito alla questione “certificati verdi” per il parco eolico. Come si ricorderà, la Glencore ne ha previsto la realizzazione per l’autoproduzione di energia, al fine di abbattere i costi della bolletta elettrica. Spesa prevista: 150 milioni. Ma l’investimento era stato congelato in attesa di avere certezze sulla nuova disciplina in materia di energie rinnovabili, che escludeva l’autoproduzione dagli incentivi. Lo scoglio è stato superato con un emendamento al V Conto energia, che ha fatto salvi gli investimenti già avviati per la produzione di energia elettrica in autoconsumo.
Insomma, il problema del costo dell’energia sembra sia stato risolto per il medio-lungo periodo con la combinazione di autoproduzione di energia elettrica da fonti rinnovabili (eolico) e l’utilizzo degli strumenti di mercato disponibili per le industrie ad alto consumo energetico.
Se da un lato non esistono più impedimenti per la Portovesme di continuare l’attività produttiva, dall’altro l’azienda continua a sollecitare interventi immediati anche nella realizzazione delle infrastrutture: le strade sono quelle degli anni ’60, il porto industriale è del tutto inadeguato, anche i costi dell’acqua industriale sono elevati.
Un appello raccolto dalle orecchie della politica. «La Giunta regionale – dichiara il presidente, Ugo Cappellacci – prosegue il suo impegno con determinazione e con il pieno coinvolgimento dei rappresentanti politici e delle forze sociali, sia per salvaguardare l’esistente, sia per aprire nuove prospettive di rilancio con gli interventi previsti nel Piano Sulcis».


Alcoa Trasformazioni srl            

Alcoa Trasformazioni srl, Portovesme: serbatoio d'acqua di emergenza
Alcoa Trasformazioni srl, Por-
tovesme: serbatoio d'acqua
di emergenza

Risale ai primi di gennaio 2012 l’annuncio choc: Alcoa ha deciso la chiusura definitiva dell’impianto per la produzione di alluminio di Portovesme.
Una notizia che apre uno scenario assolutamente imprevisto e fa passare in secondo piano (si fa per dire) i due rilevanti problemi del costo dell’energia e delle super multe europee. La decisione viene comunicata alle rappresentanze sindacali, in contemporanea con un comunicato emesso dalla casa madre negli Usa. Alcoa taglia nel mondo il 12 per cento della sua produzione, con molteplici obiettivi: ridurre le giacenze, tagliare i rami secchi, tenere in piedi la quotazione in Borsa, in rapida discesa negli ultimi mesi. E uno dei rami secchi, giudicato dalla casa madre in realtà il più secco di tutti, è proprio quello sardo.
Una doccia fredda per i lavoratori, un disastro per centinaia di famiglie: Alcoa vale 1.500 posti di lavoro, tra diretti e indiretti.
Il mondo politico e sindacale, colto alla sprovvista, risponde in maniera unitaria alla decisione Alcoa. I parlamentari sardi rivolgono interrogazioni e interpellanze al Governo; il Consiglio regionale approva una mozione unitaria per il salvataggio dello stabilimento; il presidente Ugo Cappellacci e l’allora assessore dell’Industria, Alessandra Zedda, avviano una lunga e serrata serie di incontri col Governo nazionale; lavoratori e sindacati promuovono assemblee e manifestazioni, anche clamorose, in Sardegna e a Roma.
Una volta accertato come la decisione di abbandono dei vertici Alcoa sia irrevocabile, Governo, Regione e Sindacati capiscono che insistere per la permanenza degli americani sarebbe stato tempo perso. L’unica strada da perseguire rimane quella della vendita.
Dopo un’altalena di speranze e delusioni protrattasi per tutta l’estate, fallisce la trattativa con la holding tedesca Aurelius, mai veramente convinta dell’operazione. Lo stesso dicasi per la svizzera Glencore (che controlla la Portovesme srl), che ritiene troppo elevati i costi energetici.
Stando alle ultime notizie, ci sarebbero altri possibili acquirenti, soprattutto dopo la proroga di tre anni concessa dall’Ue al sistema elettrico dell’interrompibilità. Si parla di importanti multinazionali di diverse parti del mondo: tedesche, cinesi, americane e forse anche australiane. Tutte si sarebbero fatte avanti con manifestazioni di interesse, ma non esistono ancora trattative vere e proprie con l’Alcoa. Al momento in cui scriviamo, il lotto delle pretendenti parrebbe essersi notevolmente assottigliato
Facile prevedere, a questo punto, tempi piuttosto lunghi. Intanto, nello stabilimento di Portovesme, lo spegnimento delle celle elettrolitiche e degli altri reparti (forni cottura anodi e mescola) è praticamente concluso. E adesso si attendono le sforbiciate del personale. 
Per i lavoratori, ancora coperti dal cappello degli ammortizzatori sociali (ma non sarà per sempre), si prospettano altre dure lotte. Alcune delle quali, peraltro già avviate, a partire dallo sciopero generale del Sulcis Iglesiente di fine settembre 2012 e la spedizione che ha portato a Roma qualche migliaio di persone.
Osservava, in quell'occasione, l’assessore Zedda: «Occorre un’azione forte, coesa, determinata di tutte le istituzioni e delle parti sociali affinché i lavoratori e il territorio non siano lasciati in una condizione di sofferenza in questa fase di transizione tra il modello economico sociale ereditato dal passato e quello che stiamo preparando per le future generazioni».

Eurallumina srl

È il 13 marzo del 2009 quando i quasi quattrocento dipendenti vengono invitati a lasciare la fabbrica (rilevata dalla Rusal) diventata improduttiva. Nello stabilimento vengono spenti i forni, fermati i nastri trasportatori, svuotati i depositi di bauxite. Restano al lavoro una quarantina di dipendenti insieme allo staff dirigenziale. Tutti gli altri, parcheggiati in cassa integrazione, con integrazione aziendale.
La crisi doveva essere passeggera: era stata annunciata una chiusura temporanea, un anno al massimo due. Invece le linee di produzione sono ormai ferme da oltre quattro anni e non se ne scorge la ripartenza.
Ricordiamo che l’Eurallumina forniva all’Alsar prima, all’Alcoa poi, la materia prima (l’allumina) per produrre alluminio. Chiusa l’Eurallumina, l’Alcoa ha dovuto importare via nave la materia prima. Operazione complicata anche per via dell’inefficienza del porto industriale, che ha comportato spese aggiuntive per dieci milioni all’anno. È uno degli extracosti che, al primo segnale di debolezza del mercato, hanno messo fuori gioco l’Alcoa. Così la crisi dell’Eurallumina ha finito per determinare quella dell’Alcoa e ora la chiusura dell’Alcoa rischia di far saltare il riavvio dell’Eurallumina.
Riavvio che, secondo i più pessimisti, potrebbe non verificarsi mai, perché i segnali che Rusal sta dando in tutto il mondo non vanno nella direzione auspicata: nel 2013 sono previsti tagli consistenti negli impianti già in attività in Russia, Giamaica e Australia.
Il problema principale dell’impianto di Portovesme è, anche in questo caso, il costo dell’energia. A differenza di Alcoa, nel processo produttivo di Eurallumina è importantissima l’energia termica, piuttosto che quella elettrica. Prima della fermata degli impianti si usava l’olio combustibile, ora – nell’ipotesi di ripresa produttiva – si vorrebbe puntare sul vapore. Una soluzione che inizia a profilarsi ad aprile 2012, nella sede romana del ministero dello Sviluppo economico, nel corso di un incontro tra Enel, Terna, Eurallumina, Governo e Regione. Due le opzioni in campo per la produzione e la fornitura di vapore: la prima, auspicata da Enel, ipotizza la realizzazione di una nuova caldaia dedicata. La seconda, che piace ai vertici di Eurallumina, prevede lo spillamento del vapore dalla centrale Sulcis 2 di proprietà Enel per alimentare gli impianti dello stabilimento.
Dopo due mesi di silenzi e tentennamenti, arriva la decisione della Rusal, comunicata con lettera al Governo italiano: l’Eurallumina è strategica e fondamentale per i programmi industriali, ma per riavviare la fabbrica serve una centrale autonoma, capace di generare vapore ed energia elettrica. Un investimento di 100 milioni. «Chiederemo alla Rusal – dichiara nella circostanza il presidente della Regione, Ugo Cappellacci – conferma degli impegni contenuti nella lettera, con particolare riguardo agli investimenti per la realizzazione della nuova centrale a servizio del processo produttivo, agli investimenti per la ristrutturazione dell’impianto per consentire gli approvvigionamenti della materia prima e la reale disponibilità della bauxite proveniente dalla miniera della Nuova Guinea».
Ai primi di agosto, dopo un vertice tenutosi negli uffici romani del ministero dello Sviluppo economico, arriva il via libera alla road map per la ripresa della produzione di ossido di alluminio. All’incontro partecipano il sottosegretario Claudio De Vincenti, l’assessore regionale dell’Industria, Alessandra Zedda, il presidente della Provincia Carbonia Iglesias  Salvatore Cherchi, i vertici della Rusal, i segretari confederali e di categoria di Cgil, Cisl e Uil, e la Rsu di fabbrica.
Questo l’accordo: il ministero metterà a disposizione le risorse finanziarie per adeguare gli impianti di Portovesme ed è disponibile, con la Regione, a partecipare (con quote azionarie da definire), alla costituzione della nuova società che realizzerà e gestirà la centrale termica, in grado di produrre anche energia elettrica. Il tutto finalizzato ad abbassare i costi di produzione del vapore e dell’energia fino a riportare l’Eurallumina a essere competitiva sul mercato.
Altri punti in discussione: la possibilità di trasformare la cassa integrazione in deroga in cassa integrazione per crisi aziendale dal 2013; la modulazione del contratto di programma per poter apportare agli impianti le modifiche necessarie per utilizzare – con un nuovo frantoio – la bauxite africana, di minor pregio; le multe europee; le bonifiche ambientali; i crediti Iva vantati dalla Rusal per 56 milioni e riconosciuti dall’Agenzia delle Entrate solo per 40.
Fra i problemi principali della vertenza Eurallumina, resta anche quello del bacino dei fanghi rossi, attualmente sotto sequestro giudiziario. La Rusal chiede di poter tornare a disporre del bacino di Sa Foxi e di poterlo anche ampliare. Ma esiste anche la possibilità di disporre di un’altra area, individuata dalla Provincia, per la costruzione di un nuovo bacino dove allocare gli scarti di lavorazione della bauxite.
Tutte questioni da definire nel protocollo d'intesa sul piano industriale e sulla relativa copertura finanziaria. Se tutto procederà secondo speranze e previsioni, il riavvio degli impianti non potrà comunque avvenire prima del 2015.


Ex Ila

Ex Ila di Portovesme: fusione di alluminio primario per la sua trasformazione in laminati e fogli sottili
Ex Ila di Portovesme: fusione di alluminio primario
per la sua trasformazione in laminati e fogli sottili
Chiusa da quasi quattro anni e fallita, colpita anch’essa dalla multa europea (sia pure per “solo” 300 mila euro), tutto fa presagire, all’inizio del 2012, il definitivo declino della fabbrica, soprattutto dopo la “fuga” degli imprenditori coreani che avevano mostrato interesse all’acquisto. Invece, i curatori fallimentari e i creditori valutano congrua l’offerta dell’imprenditore iglesiente Nino Deriu e a fine aprile il giudice fallimentare dà il via libera al passaggio di proprietà.
Passaggio avvenuto formalmente alla fine di giugno 2012, a favore della Re.no srl di Deriu, per una cifra di tre milioni di euro. L’operazione, che ha avuto il sostegno (non finanziario) della Regione, è presentata, nella sede di Villa Devoto, dallo stesso Deriu, affiancato dal presidente della Giunta, Cappellacci, e dall’allora assessore regionale dell’Industria, Zedda. «Per poter stare sul mercato con la nuova azienda, che si chiamerà Port. All. – afferma l’imprenditore sardo – ordineremo dei nuovi macchinari per la lavorazione dell’alluminio».
Il piano aziendale prevede non solo il riavvio della produzione di laminati in alluminio, anche con lavorazioni più leggere, e per diversificare l’attività. Come spiega lo stesso Deriu, che nel Sulcis opera da 40 anni con un’azienda di manutenzioni per le centrali Enel, sarà creata una nuova società, la Consul (Costruzioni nautiche sulcitane) per la realizzazione di maxi yacht con scafo in alluminio da 25 metri in su, grazie a una banchina assegnata provvisoriamente nel porto di Portovesme.
«Nell’immediato ci aspetta una prima fase di messa in sicurezza e manutenzioni – spiega Deriu – che saranno affidate ai dipendenti della Re.no, la mia azienda che si occupa di manutenzioni industriali. Saranno necessari interventi in quota, che richiedono una professionalità specifica. Ecco perché in questa fase di operazioni urgenti non utilizzerò i dipendenti ex Ila».
Per i 153 dipendenti parcheggiati in cassa integrazione e in attesa che gli impianti siano riavviati, saranno attivati corsi di formazione e riqualificazione professionale. In base all’accordo firmato alla Regione tra l’assessore Zedda, i Sindacati, la Provincia e lo stesso Deriu, l’intero organico sarà riassunto entro 18 mesi, a mano a mano che si procederà con l’avvio degli impianti. Nello stesso verbale di accordo, la Regione si impegna a inserire la società Re.no tra le aziende beneficiarie delle agevolazioni energetiche. Inoltre, all’interno del Piano Sulcis saranno compresi anche gli interventi necessari al rilancio dei laminati e alla diversificazione della produzione verso la nautica.
Il presidente della Regione, Ugo Cappellacci, esprime soddisfazione per l’operazione. «Abbiamo rimarginato una ferita del Sulcis che, da anni, coinvolgeva più di cento famiglie. La fabbrica costituisce un anello importante nella filiera dell’alluminio e ora possiamo annunciarne il rilancio con orgoglio». L’assessore Zedda evidenzia  «il grande sforzo profuso da Regione, Sindacati e imprenditore. Dopo aver cercato, assieme alla Sfirs, tanti acquirenti in Italia e in Europa, ci siamo resi conto che l’impresa stava sul territorio».
In conclusione, va dato atto alla Regione di aver gestito la partita in maniera impeccabile: ha evitato che lo stabilimento di laminati finisse tra le fauci dei demolitori di fabbriche, che lo avrebbero fatto a pezzi; ha consentito che un imprenditore del Sulcis si facesse avanti; lo ha affiancato nel difficile percorso che doveva portare all’acquisizione della ex Ila. Inoltre, ha fatto da “madrina” alla sottoscrizione di un accordo che pone paletti fermi nel processo della produzione e, soprattutto, garantisce che nessuno dei 153 lavoratori perderà il posto.


Carbosulcis spa

Tecnici della Carbosulcis intenti al montaggio di una sonda
Tecnici Carbosulcis intenti al
montaggio di una sonda
Nel destino del carbone Sulcis continuano a intrecciarsi vicende che generano preoccupazione. Sono ormai passati oltre tre lustri da quel 1996 in cui la Regione Sardegna prese in carico la proprietà della Carbosulcis, con la finalità di guidarne la “transizione” verso la privatizzazione, eppure il destino del carbone sardo è ben lungi dall’essere definito.
Fra tante polemiche e dubbi, la politica regionale intravvede una sola via d’uscita: il progetto integrato miniera-centrale. Il percorso è questo: la privatizzazione della miniera, la ripresa dell’estrazione del minerale e la costruzione di una nuova centrale termoelettrica funzionante a carbone, dotata degli impianti per la cattura e il successivo confinamento dell’anidride carbonica nel sottosuolo, al fine di ridurre le emissioni in atmosfera di CO2, in coerenza con gli obiettivi europei.
«Dopo una laboriosa interlocuzione tra Regione e ministero dello Sviluppo economico – dichiara l'allora assessore regionale dell’Industria, Alessandra Zedda – l’originario progetto è stato rielaborato da Sotacarbo e assessorato, tenendo conto delle richieste della Commissione europea». La quale pone tre questioni: la prima riguarda il sistema di incentivi da corrispondere per la produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile; la seconda richiede che nessun aiuto di Stato vada a sostegno dell’attività estrattiva del carbone; la terza riguarda la dimensione del progetto, che può anche essere ridotta, con centrale e modulo Ccs (carbon caption and storage, cattura dell’anidride carbonica) più piccoli per diminuire l’entità dei finanziamenti.
«Le modifiche sono state elaborate – afferma il presidente della Regione, Ugo Cappellacci – al fine di dare gambe veloci a un piano tecnologicamente avanzato, idoneo non solo a garantire il quadro esistente, ma anche a dotare l’economia nazionale di uno strumento che renda il Paese all’avanguardia nel campo del carbone pulito e in grado di perseguire gli obiettivi europei in materia di sostenibilità ambientale e di emissioni di anidride carbonica».
Il nuovo progetto dovrebbe consentire – una volta ottenuto il placet europeo – lo svolgimento dell’asta internazionale entro il 2013.
Ma nella tormentata vicenda del carbone Sulcis ben altre nubi si profilano all’orizzonte. Infatti, nell’ultima decade di novembre 2012 giunge la notizia dell’apertura di due indagini approfondite (in pratica, procedimenti di infrazione) da parte della Commissione europea sulle misure di sostegno al settore dell’energia in Sardegna, chiamando in causa sia i presunti aiuti di Stato piovuti a Nuraxi Figus dal 2001 in poi, sia le misure di sostegno al futuro progetto integrato. Nel primo caso, l’indagine potrebbe concludersi con la richiesta di restituzione dei 400 e passa milioni di euro che la Regione ha sinora versato nelle casse della Carbosulcis. Nel secondo caso, il rischio è che il progetto potrebbe essere ritenuto non in linea con le regole comunitarie, in quanto valutato come una forma di sovvenzionamento indiretta per lo sfruttamento di una miniera di carbone locale.
La Regione è fermamente intenzionata ad andare avanti. «Daremo tutte le giustificazioni che vengono richieste dall’Unione europea. Abbiamo sempre rispettato la legge – dichiara Alessandra Zedda – e lo dimostreremo. Ma non rinunceremo a sostenere quello che siamo convinti rappresenti un importante progetto di innovazione e ricerca sull’energia pulita».
«Il progetto è valido – assicura Mario Porcu, presidente della Sotacarbo – ora è il Governo che deve sostenerlo con l’Unione europea». Su questo punto sono tutti d’accordo: occorre un deciso intervento del Governo nazionale, che sposi la causa del carbone Sulcis e ne difenda le sorti a livello europeo.
Il timore è che, senza il sostegno governativo, il progetto “miniera più centrale” si riduca a un puntino all’orizzonte. Prossimo a scomparire? 






Foto (numerazione progressiva dall'alto in basso): Uff. Stampa Regione Sardegna, nn. 1, 5, 7, 10; Alcoa Trasformazioni, nn. 2, 3, 9: Sardegna industriale, nn. 4, 8; European Commission Audiovisual Library, n. 6; Adriano Mauri, n. 11; Carbosulcis, n. 12