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Editoriale
Lucio Piga
C'è ancora spazio per la chimica in Sardegna?
Lucio Piga
Sul futuro della chimica il parere di Confidustria
Carlo Mannoni
L'eterna emergenza della risorsa acqua
Gherardo Gherardini
Un primo passo verso la continuità territoriale
Gherardo Gherardini
Lo stato dei lavori negli aeroporti dell’isola

 

Sul futuro della chimica il parere di Confidustria
Lucio Piga

 

 Pur contraria a qualsiasi ipotesi di ridimensionamento senza alternative dell’apparato industriale esistente, la Confindustria regionale sottolinea l’esigenza di porsi seriamente il problema, come sottolinea il presidente Riccardo Devoto, di come eliminare definitivamente in Sardegna le diseconomie che ritardano il nostro sviluppo. La posizione molto articolata dei rappresentanti dell’imprenditoria sarda è stata espressa, nell’intervista che segue, dal presidente Devoto.Il presidente della Confindustria regionale Riccardo Devoto

 Si moltiplicano in queste settimane le grida d’allarme dei sindacati contro il pericolo sempre più forte di un pesante ridimensionamento delle produzioni chimiche nell’Isola. Tutto fa pensare ormai alla fine di un ciclo. Qual è il giudizio degli imprenditori sardi di fronte ad una eventuale ulteriore chiusura di impianti?

«Più che un giudizio, è un preoccupato stato d’animo. L’industria chimica isolana, per la gran parte è il risultato di un trentennio di massicci investimenti per industrializzazione e reindustrializzazione, ed oltre ad essere esposta alle normali fluttuazioni dei mercati, ha dovuto scontare un maggior costo dovuto all’insularità ad alla mancanza di una vera cultura industriale. È evidente che il trascinarsi di questi gap espone la chimica sarda a maggiori rischi, soprattutto per settori particolarmente sensibili agli andamenti del mercato internazionale. La Confindustria sarda non può che essere contraria ad ogni possibile ridimensionamento senza alternative, ed evitando la sociologia all’ingrosso, bisogna porsi seriamente il problema sul come eliminare definitivamente nell’isola i fattori di ritardo di tipo “ambientale”, legati all’insularità, all’energia, al sistema infrastrutturale, ed alla mancata flessibilità del lavoro, che rendono particolarmente difficile la vita delle industrie del settore chimico, (ma anche di tutte le Pmi isolane), cercando di salvaguardare le produzioni che si sono ritagliate un vero e proprio ruolo leader nei mercati. Mi riferisco a delle lavorazioni particolari, come quelle di alcune industrie chimiche del Centro Sardegna».

Le nuove frontiere della new economy e le grandi trasformazioni dell’economia mondiale sembrano tracciare scenari impensabili fino a poco tempo fa per il futuro dei sistemi economici regionali. Ha senso a questo punto insistere con attività produttive legate alla grande industria di base ed in particolare, per il caso Sardegna, alla chimica ed alla metallurgia?

«I dati dell’Istat e dello Svimez sulla Sardegna, evidenziano una leggera discesa dei tassi di disoccupazione, ed un modesto incremento del pil. Le nostre esportazioni sono altalenanti ed è sotto gli occhi di tutti che il mondo della New economy permette sicuramente un mercato globale ma anche una concorrenza altrettanto onnipresente. Prima di preoccuparsi se è il caso di insistere sulla chimica e sulla metallurgia, sarebbe meglio creare rapidamente le condizioni per fare sistema a livello regionale, in modo da trasformare quelli che sono scenari impensabili, in occasioni per creare ricchezza. L’Eurostat conferma il momento di forte ripresa in Europa. L’Italia, è anch’essa nel treno della crescita, anche se in ritardo. Noi – fanalino di coda con un indice di sviluppo regionale ancora troppo basso – dobbiamo prima di tutto puntare ad un obiettivo: eliminare lo sviluppo a macchia di leopardo, sia utilizzando razionalmente i fondi del Quadro comunitario di sostegno 2000-2006, sia applicando in modo esteso i principi della concertazione e della flessibilità del lavoro. In questo caso, avrà un senso difendere la chimica e la metallurgia, altrimenti si rischia di assistere ad una contrazione della base produttiva, dove le grandi imprese, se non trovano condizioni favorevoli possono comunque sopravvivere, ma il prezzo da pagare sarebbe una riduzione dell’occupazione, la chiusura di impianti e la difesa di propri legittimi interessi, a danno dei processi di crescita».

 Alla luce dell’esperienza degli ultimi trent’anni, che giudizio dare delle politiche d’industrializzazione della Sardegna centrale?

«L’industrializzazione della Sardegna centrale, con le sue luci e le sue ombre, è stata comunque una vera e propria rivoluzione culturale ed economica, che ancora oggi riveste un ruolo importante, sia per il contributo occupazionale diretto ed indotto, sia per tutti gli altri effetti socioeconomici. Le logiche delle Partecipazioni statali sono state purtroppo negative, e non si è riusciti a creare una base produttiva sufficientemente radicata nel territorio ed efficacemente connessa all’esterno in grado di utilizzare in modo efficace i 1.700 ettari della Sardegna centrale destinati ad aree industriali. Il risultato più evidente è stato un tasso di disoccupazione del 30% che convive assieme a realtà produttive in forte crescita, aree estremamente arretrate e bassi valori di export. Questo succede perché le eccellenze produttive sono diventate sistemi isolati anche a causa dei maggiori costi connaturati all’insediamento nelle aree del Centro Sardegna, alle reti inesistenti, all’insufficiente cultura del lavoro industriale e dell’imprenditorialità e di tipo burocratico. Non dimentichiamoci però che nell’ultimo trentennio le condizioni di vita ed il reddito pro capite del Centro Sardegna, hanno avuto una imponente crescita grazie anche all’industria chimica, e perciò si deve insistere nel capire cosa difendere realmente, a patto che si sciolgano i nodi ai quali accennavo prima, e che si tutelino le realtà produttive con le maggiori potenzialità».

 L’Enichem mostra di essere in disarmo in Sardegna, ma per certi aspetti anche a livello Paese; l’Eni non nasconde di volersi occupare ormai soltanto di energia; eppure arrivano le multinazionali, rilevano gli impianti sardi e fanno utili. Che dire?

«L’errore che spesso viene fatto è quello di banalizzare un fatto importante come l’impresa che fa utili. Attribuire azioni di smobilitazione ad una multinazionale come l’Eni è una forte tentazione, ma è anche una eccessiva semplificazione. Si deve ricominciare a parlare seriamente della cultura di impresa, delle logica dei bilanci in attivo e non del semplice “sopravvivere”, della visuale ampia e delle scelte operate dagli attori locali e non imposte dall’alto: in altre parole la ristrutturazione del gruppo Eni è una fatto strategico internazionale che non dipende certo dalle scelte fatte nell’isola, ma ristrutturare un’industria vuol dire anche renderla più efficiente, a volte anche in modo drastico, altre con una diversa organizzazione produttiva. Se si vuole parlare di mercati aperti, e di competitività del sistema Sardegna, è giusto che si ragioni in termini di utili e quindi di aziende sane e produttive, anche se appartenenti a gruppi esteri. Una economia che funziona, è una economia disposta ad adattarsi al cambiamento, alla flessibilità ed all’innovazione. Arroccarsi su posizioni di difesa totalmente slegate da normali principi di mercato non porta molto lontano, e la chimica di Stato ne è l’esempio».

 È ancora valida l’equazione secondo cui lo sviluppo della Sardegna non sarebbe possibile senza la presenza della grande industria pubblica o privata, come si sosteneva unanimemente fino ai primi anni Novanta?

«L’apparato produttivo sardo è costituito per il 90% da Pmi con meno di 50 addetti, e ritengo che la grande industria in Sardegna non possa esistere senza la valorizzazione di un tessuto di piccole imprese. Il Dpef regionale 2000-2003 ha previsto circa 900 miliardi per le imprese, 300 per la programmazione negoziata e 60 miliardi per operazioni di promozione della Sardegna all’estero. Credo che l’obiettivo prioritario da raggiungere, grazie anche a queste risorse, debba essere il rafforzamento delle Pmi locali, ma anche una mirata operazione di marketing territoriale, capace di combinare risorse locali (tipicamente delle nostre piccole imprese) con investimenti della grande industria, evitando però gli errori del passato, che hanno creato i sistemi isolati. Non è pensabile fare sistema e creare filiere produttive se – ad esempio – abbiamo ancora un sistema stradale ultimo nella graduatoria nazionale per estensione e qualità. Ma il pericolo maggiore è la mancanza di un definitivo start-up del nostro sistema, che entro i prossimi 6 anni (leggasi periodo del Qcs 2000-2006) dovrà cercare in tutti i modi di affrancarsi definitivamente dai problemi che ne hanno bloccato lo sviluppo e che hanno contribuito ad aumentare il divario tra Nord e Sud della nazione. Non dobbiamo dimenticare che siamo rimasti nell’Obiettivo 1 del Qcs perché le province di Nuoro ed Oristano hanno praticamente annullato i valori di incremento del pil che invece si sono evidenziati in provincia di Cagliari e Sassari, bloccandoci nel girone dantesco delle aree a fortissimo ritardo di sviluppo.

 Sviluppo: da una parte si allarga la cerchia di chi afferma che occorre fondare sul Turismo e sull’Agroalimentare ad esso collegato il sistema economico sardo; dall’altra c’è invece chi ancora sostiene che nessuna prospettiva valida di crescita duratura è ipotizzabile senza la presenza di un sano e florido tessuto industriale manifatturiero. Quale la posizione della Confindustria?

«Credo che sia un falso problema: conciliare le risorse del settore turistico ed agroalimentare con un tessuto industriale manifatturiero è possibile, a patto che – come ho detto prima – si riducano quei freni di tipo infrastrutturale, energetico, e di carenza delle logiche di sistema, per le quali abbiamo sopperito in parte con la programmazione negoziata dei Patti territoriali, Piani integrati d’area, Accordi di programma, e Contratti d’area. Come Confindustria abbiamo sempre posto in primo piano questi problemi, che vanno ad assommarsi alle problematiche di una fiscalità pesante e di un sistema del credito dove spesso il rapporto banca impresa è ancora conflittuale e non di vera partnership».