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Una scelta strategica per il sistema Sardegna

Energia: emergenza del terzo millennio

Un Piano per il rilancio produttivo

Un cappio al collo per le industrie del Sulcis

Un ruolo strategico per metano e carbone

Le reti di distribuzione del gas

Sintesi del Piano energetico regionale

Sardegna, isola digitale

Per il turismo un modello di qualità

 

Energia: emergenza del terzo millennio

 

Per affrontare l’emergenza energia è ormai ora di battere nuove strade. Studiosi autorevoli affermano infatti che l’unico modo per “cambiare energia” sia quello di sviluppare l’innovazione e la ricerca sulle fonti alternative. Più che una scelta, secondo il premio Nobel Carlo Rubbia, si tratta di una necessità vitale per tutti gli abitanti del pianeta.

di Gherardo Gherardini

 

Tra le emergenze del terzo millennio gli esperti indicano, senza titubanze, quella energetica. Forse la maggiore, almeno fino al compimento della prima decade, quando alcuni nodi saranno venuti al pettine. Materia di animate discussioni e di accese contese politiche, tema periodicamente affrontato nelle intenzioni e periodicamente accantonato nelle soluzioni.

E così i problemi restano, uguali e immutati nel tempo. Trascinati, come certifica il nostro presente di mondo elettronico ed elettrificato ad oltranza, ben al di là di una quotidianità altamente computerizzata o robotizzata, e pertanto a costante “rischio shock”, fatta di ripetuti black out estivi e di collassi energetici veri e propri.

Piattaforma
Piattaforma "Castore" della Saipem per la ricerca off-shore
Il crack, dicono gli studiosi, è vicino, davvero imminente. E va scongiurato, con ogni mezzo. Pena la paralisi di importanti settori produttivi, lavorativi, della sicurezza di ciascuno di noi ed assistenziali, a partire dagli ospedali. La nostra vita dipende dai computer, oramai, i quali a propria volta dipendono dall’elettricità. Se manca, non “ragionano”, non camminano, non interconnettono i dati loro affidati e dai quali dipende ormai quasi tutta la nostra vita. Una vita che potrebbe finire così, con una paralisi totale: black out, appunto. Lo confermano le statistiche, tutti i dati e gli indicatori previsionali dei prossimi anni.

Ma che l’emergenza prima o poi sarebbe arrivata lo si sapeva da tempo. Restano solo sei anni di tempo per raddrizzare il timone. «Tutte le centrali nucleari costruite negli anni 70-80 dovranno essere smantellate entro l’anno 2000, dopo 25-30 anni di funzionamento, ponendo così problemi di non facile soluzione. Fra il 2000 ed il 2010 saranno chiusi 67 reattori negli Stati Uniti e 225 nel resto del mondo». Così recitavano il 16 luglio 1986 – quasi diciotto anni fa – i dati del World Watch Institute di Washington diffusi dalle agenzie di stampa ad un’ora pressoché impossibile – le 21,29 – per essere ripresi con l’evidenza necessaria, l’efficacia ed il significato dovuto da tutti i media il giorno successivo.

E ancora: la tecnologia nucleare «ha una obsolescenza rapidissima, ben maggiore di quella sostenuta dai suoi fautori», sosteneva il Rapporto, «quindi non produttiva dal punto di vista economico». Dopo oltre diciassette anni e con prospettive energetiche al 2010 assolutamente pessime, quell’impostazione appare oggi decisamente smentita, tanto che si ritorna a parlare di “necessità nucleare” dinanzi al fabbisogno di energia sempre più elevato.

Tuttavia, non è ipotizzabile perseguire e battere un’unica strada per l’approvvigionamento energetico. Bisogna diversificare le fonti, sviluppare la ricerca in tutte le direzioni possibili. E ciò vale non solo per l’Italia, ma per tutti i paesi, sia che appartengano all’Unione europea, sia al di fuori di essa. Già nel 1991 il rapporto “Energia 2010”, stilato da uno specifico gruppo del Commissariato generale per la pianificazione di Parigi sotto la guida di Michel Pecquerer, ex presidente della compagnia petrolchimica pubblica “Elf Acquitaine”, consigliava alla Francia di continuare a mobilitare gli sforzi e le risorse per garantire la continuità degli approvvigionamenti di petrolio e gas naturale e «di non ridurre la capacità di raffineria in Francia ed in Europa, poiché la crisi del Golfo ha dimostrato che non esistono soltanto problemi di greggio».

Obiettivi irrinunciabili, secondo il Rapporto, sono quelli di saper adattare la capacità di raffineria all’evoluzione della domanda; portare avanti il programma nucleare, anche se a ritmo molto più ridotto; accelerare il risparmio energetico; diminuire l’uso di carburante fossile per i trasporti ed accentuare la politica di produzione di fonti alternative.

Torre di raffreddamento dell'impianto Targas della società Sarlux, a Sarroch. Con un consumo di circa 3.500 t/anno al giorno di residui di lavorazione, l'impianto fornisce alla rete Enel 55o MW di energia elettrica.
Torre di raffreddamento dell'impianto Targas della società Sarlux, a Sarroch. Con un consumo di circa 3.500 t/anno al giorno di residui di lavorazione, l'impianto fornisce alla rete Enel 550 MW di energia elettrica.
Così a Roma, già nell’ottobre 1992, si pensava che per soddisfare il maggior fabbisogno di energia, stimato in 220 mila MW, bisognasse costruire in Europa «entro i prossimi 18 anni» (cioè il 2010, appunto) 250 nuove centrali a carbone. E se si calcolava la produzione delle centrali dell’epoca (500/800 MW), il fabbisogno si sarebbe tradotto in un ritmo di costruzione di 20 nuove centrali all’anno fino al 2010. Secondo uno studio previsionale curato dall’azienda tedesca Veba Kraftwerke ed in circolazione a quei tempi, si poteva evincere che gran parte della produzione elettrica «sarà coperta nel 2010 da carbon fossile: rimarrà infatti forte l’opposizione dell’opinione pubblica al nucleare e le altre fonti energetiche (petrolio) non potranno fornire un contributo duraturo a causa della loro limitata disponibilità».

Inoltre, secondo Hans-Dieter Harig, il presidente della Veba che stava in quel periodo studiando la possibilità di migliorare il grado di efficienza delle centrali a  carbone riducendo le emissioni di anidride carbonica, «nei prossimi anni – questa era la sua predizione – si assisterà ad una forte crescita dell’impiego del gas naturale e ad un incremento delle fonti rinnovabili quali il vento, il sole, le biomasse ed il calore geotermico, il cui apporto energetico sarà tuttavia molto modesto per i prossimi vent’anni» (con la solita meta dell’anno 2010).

Come stiano le cose oggi, a fronte di quelle previsioni, lo sappiamo. Così come sappiamo che il disporre di un efficiente sistema elettrico è condizione essenziale per la crescita di un Paese e per la qualità della vita dei cittadini. L’elettricità non è una fonte primaria di energia, come il petrolio o il carbone, ma è un vettore, ovvero un sistema di trasporto dell’energia per renderla disponibile al consumatore in maniera efficiente e versatile.

Fisicamente, l’elettricità consumata in ogni istante deve corrispondere alla stessa elettricità prodotta nelle centrali in quello stesso istante, con un perfetto equilibrio garantito dal sistema di trasporto. Se, come accaduto la scorsa estate in Italia, un paio di linee saltano e si riduce la tensione, tutta la rete entra in crisi per assenza di equilibrio. Per ristabilirlo, sono necessarie diverse ore, a causa dell’enorme complessità del sistema, fatto – sempre per restare all’esempio dell’Italia – di centinaia di centrali, di oltre 40 mila km di linee di trasmissione e di quasi 30 milioni di utenti finali.

Dalla fine degli anni 90 è in corso un processo di riforma delle industrie elettriche nei Paesi industrializzati, volto a creare assetti competitivi nella speranza di avere maggiore efficienza e prezzi energetici più bassi. Si tratta di una transizione difficile, che ha accentuato l’incertezza e ridotto la propensione agli investimenti. Prima, l’industria era in mano a grandi monopolisti statali, che certamente eccedevano negli investimenti,
La motonave metaniera
La motonave metaniera "Snam Palmaria"
ma al contempo garantivano che i sistemi, sovradimensionati, potessero resistere a qualsiasi evento eccezionale. Con le riforme, le principali fasi dell’industria elettrica (cioè produzione, trasmissione e distribuzione) sono state separate, introducendo regole e creando nuovi soggetti, per i quali la propensione all’investimento è stata nettamente inferiore.

Nel frattempo, i consumi sono aumentati ed hanno portato a galla prima la scarsa capacità di generazione e poi i problemi della rete. Un fenomeno che si sta manifestando quasi dappertutto, in Italia e all’estero, a dimostrazione di un problema diffuso di gestione dell’industria elettrica. Magra consolazione, anche perché l’Italia ha qualche aggravante maggiore, a partire dalla forte dipendenza da importazioni di elettricità dall’estero. Nel 2003 ha registrato una domanda di 54 mila MW al giorno, a fronte di una potenza teorica installata nelle centrali di poco meno di 77 mila. Peccato che di questa ne venga effettivamente reso disponibile solo il 64 per cento, cioè 49 mila MW. Ecco dunque che siamo costretti ad importare il 17 per cento del fabbisogno da Francia, Svizzera, Slovenia, Austria e Grecia. In Europa, siamo il primo paese importatore, davanti alla Spagna (con il 3 per cento).

Dati sorprendenti: ma come, abbiamo energia in quantità e la teniamo chiusa in un cassetto per andarla a comprare fuori? Sì, la abbiamo, ma produrla costa troppo. L’Italia, rispetto ai principali paesi dell’Unione europea, è la più dipendente dall’olio combustibile (28 per cento), che rende le tariffe soggette alle fluttuazioni del prezzo del petrolio ed agli sbalzi del dollaro. Invece, Francia, Germania, Regno Unito e Spagna utilizzano per almeno il 60 per cento carbone e nucleare. Ecco perché il prezzo medio dell’energia in Italia è di 11,21 centesimi di euro per chilowattora, più caro del 18-20 per cento rispetto agli altri paesi europei. Sezionando gli 11,21 centesimi di euro, si vede come la voce più importante (4,62 centesimi) sia rappresentata dal costo del combustibile e come, dal 1996 ad oggi, sia cresciuta del 95,8 per cento.

Montaggio nella miniera di Nuraxi Figus del
Montaggio nella miniera di Nuraxi Figus del "Taglio", l'enorme macchina della Carbosulcis per l'estrazione del carbone
L’altro grave problema del sistema elettrico italiano è la diffusa e forte opposizione alla realizzazione di nuovi impianti di generazione e di nuove linee di trasporto. Nonostante vi siano richieste per 64 mila MW di nuove centrali, di cui 12 mila autorizzate, meno di tremila sono in corso di realizzazione, mentre le altre devono ancora battagliare contro incertezze normative e veti locali. Per questo motivo, quanti invocano nuove centrali, presto, prestissimo, buttano la croce addosso ai Comuni ed agli ambientalisti. In realtà, è invecchiata la rete, sono inadeguati gli elettrodotti da e per l’estero, è in ritardo l’ammodernamento delle centrali di manutenzione. Quelle, per intenderci, da far intervenire nell’emergenza.

Teoricamente, domani mattina potrebbero iniziare i lavori per costruire 24 nuove centrali, per una potenza complessiva di 11.800 MW. In pratica, invece, fra quest’anno e quello prossimo solo due nuove centrali, entrambe della Enipower, inizieranno a produrre 1.500 MW. Poi basta: fino al 2006 non è previsto l’avvio di nessun’altra centrale, nonostante presso il ministero delle Attività produttive siano in lista per l’autorizzazione 73 impianti (per una potenza di quasi 40 mila MW).

D’altronde non manca chi, con autorevolezza, sostiene che puntare su nuove centrali sia un grave errore. La loro costruzione significa aumentare ulteriormente la potenza installata, mentre il vero problema è quello di accrescere la riserva e quindi la potenza disponibile operativa. Fino a quando questo problema capitale non sarà stato risolto, la costruzione di nuove centrali si rivelerà del tutto inutile.

Potenziare il collegamento con l’estero, allora? Certo, sarebbe la soluzione. Peccato però che delle due linee che potrebbero sollevarci dall’emergenza, una, quella tra la cittadina svizzera di Robbia e San Fiorano in provincia di Sondrio, deve ancora essere costruita, e l’altra, quella tra la Grecia ed il Sud Italia, è bloccata da sei anni per l’opposizione del piccolo comune di Rapolla.

Ma le crisi energetiche hanno la memoria lunga, non fanno sconti e colpiscono più forte laddove i problemi irrisolti restano tali per decenni. In Italia abbiamo (storicamente) affrontato la questione energia facendo finta che non esistesse. Come scambiare un vento di tempesta con una fresca brezza marina: basta leggere i rapporti della Commissione europea, che nel 2001 indicavano l’Italia come uno dei Paesi europei più a rischio di carenze elettriche a causa del livello di interconnessione troppo basso e delle insufficienti capacità di produzione interna.

Nessun Paese al mondo, esclusa l’Italia, importa il 17 per cento dell’energia che gli serve. Vero è che le nostre risorse di fonti primarie sono tra le più basse fra tutti i paesi industrializzati, tranne il Giappone. Ma è pensabile che non ci si ponga un problema che, in definitiva, attiene alla sicurezza nazionale e alla sovranità dello Stato?

Inceneritore rifiuti della Tecnocasic, nell'area industriale di Cagliari. Nell'impianto vengono trattate 220 mila t/anno di rifiuti solidi urbani e industriali, con una produzione di energia elettrica in parte ceduta all'Enel (45 milioni di kWh, nel 2003)
Inceneritore rifiuti della Tecnocasic, nell'area industriale di Cagliari. Nell'impianto vengono trattate 220 mila t/anno di rifiuti solidi urbani e industriali, con una produzione di energia elettrica in parte ceduta all'Enel (45 milioni di kWh, nel 2003)
Ragioni di mera convenienza economica hanno, in conclusione, prevalso sulle ragioni di sicurezza del Paese o, meglio, sui suoi interessi generali. Se ciò è accaduto, è perché la riforma elettrica ha lasciato del tutto irrisolta la questione centrale del passaggio dal monopolio alla concorrenza: programmazione, coordinamento, governo delle decisioni assunte dal pluralismo di soggetti che operano nel sistema elettrico. Il che significa, in altre parole,  che l’interesse particolare dei singoli operatori non deve confliggere con l’interesse generale del Paese. Che è quello di disporre, sempre e comunque, di una piena continuità delle forniture elettriche.

Se non si saprà ricreare questa convergenza di interessi, attraverso una più puntuale definizione degli obblighi di servizio pubblico che gravano sulle imprese ed attraverso una più adeguata regolazione, la situazione non potrà che restare critica, se non addirittura peggiorare. La diagnosi, in realtà, è al contempo semplice e sconfortante: il sistema elettrico italiano oggi non è governato. Una diagnosi che è condivisa da molti, autorevoli esperti. La causa, l’abbiamo detto, risiede nel modo in cui è stata fatta una liberalizzazione che avrebbe dovuto garantire al consumatore tariffe più basse ed abbondanza di offerta di energia da parte di una pluralità di produttori.

Non è andata così: il costo dell’elettricità è aumentato del 30 per cento, mentre nessuna autorità – né il governo – hanno saputo mantenere un livello di coordinamento e compattezza della rete analogo a quello che si registrava quando l’Enel era l’unico attore in campo. Il problema, come abbiamo visto, non è solo italiano: i black out che si sono susseguiti durante l’estate negli Stati Uniti, in Gran Bretagna ed in Danimarca, dimostrano che quello delle liberalizzazioni fatte con leggerezza è un problema comune a molti Paesi.

Oggi, scrive in uno studio un esperto stimato da tutti come il professor Clò, è tardi per chiudere la stalla: soffriremo fino al 2005, quando verranno riattivate le centrali chiuse per manutenzione. Il nodo vero è quello della politica, che – ce lo ha ricordato anche il presidente Ciampi con parole appassionate – non ha saputo governare una liberalizzazione così complessa e delicata. E che continua a comportarsi anche nell’emergenza con grande superficialità, a destra come a sinistra.

Le cause, dette in breve, sono diverse. Prima: il coordinamento fra le centrali produttive, che sono ormai di diverse proprietà, con la quota Enel che copre più o meno un terzo della produzione totale, è del tutto insufficiente per varie ragioni, tra le quali la principale è la mancanza di un punto di comando che faccia valere gli interessi generali dell’utenza su quelli dei singoli attori sulla scena dell’industria elettrica.

Seconda: le responsabilità ed i poteri sono diffusi e ripartiti fra il ministro, il gestore della rete, l’autorità di regolazione, i proprietari delle centrali. Questi ultimi sono del tutto autonomi nel decidere quali centrali debbano essere mantenute in funzione e quali invece, in quali ore, giorni, stagioni, possano restare inattive.

Terza: manca l’organo tecnico posto a tutela dell’interesse pubblico e dotato di poteri cogenti rispetto all’autonomia dei produttori collegati o collegabili con la rete nazionale.

Quarta: manca la “Borsa dell’elettricità” che muova i prezzi per indurre i produttori a far funzionare le centrali in misura sufficiente alle necessità di soddisfare la domanda, che è estremamente e rapidamente variabile.

Quinta: manca, o è insufficiente, la programmazione di tale domanda. La situazione è arrivata addirittura al punto che il gestore della rete si augura una permanente stasi dell’industria italiana, poiché non riuscirebbe a fronteggiare le richieste di un’eventuale ripresa congiunturale e andrebbe incontro a black out frequenti e sempre più gravi.

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Supera i 315 GWh l'energia elettrica prodotta in Sardegna dagli impianti idrici. Nella foto: la diga del Flumendosa ed il lago artificiale "Antonio Maxia"
Infine: manca il mercato, ovvero l’uso di quel criterio informativo che è il prezzo per pareggiare domanda ed offerta. Del resto, è proprio il prezzo che serve alle banche per scontare il flusso di reddito delle nuove centrali che si vogliono costruire.

In sintesi, dalle strutture gerarchiche dell’industria nazionalizzata siamo passati ad una struttura basata su centri indipendenti senza aver predisposto le regole, i meccanismi, i poteri di controllo, la programmazione, la tutela degli interessi dell’utenza. È evidente che, in questa mancanza di regole che sfiora il caos, gli ostacoli esterni come i veti degli enti locali diventano solo paraventi di comodo.

Quanto al nucleare, è forse opportuno smettere di recriminare. Il nucleare è un’industria ovunque sussidiata, che non regge alla liberalizzazione. A metà giugno dello scorso anno persino il senato americano ha dovuto sussidiarla con miliardi di dollari per sottoscrivere delle garanzie di credito. Credito che appunto le banche non avrebbero concesso sulla base del puro calcolo di mercato. Anche senza dire dei costi di sicurezza e smaltimento a carico del contribuente, sono insomma i conti delle banche, non i pregiudizi a far escludere il nucleare. Il costo del capitale da investire è altissimo, il cash flow remoto ed incerto. Ricordiamo un solo dato, per tenerci lontani da qualsiasi impostazione ideologica: nel 1999, le 436 centrali installate nel mondo hanno prodotto appena il 16 per cento dell’elettricità planetaria. Ciò significa che il loro contributo è relativamente modesto e che aumentarne la capacità con i sistemi attuali aprirebbe numerosi e rilevanti problemi.

Se si deve, come si deve, intervenire e non si vuole una force de frappe atomica, quindi, è forse il caso di smettere di guardare con invidia al nucleare francese. Meglio guardare a quanto ha fatto la California dopo il black out di due anni fa, introducendo politiche di risparmio energetico che hanno indotto una riduzione della produzione ed un calo dei consumi. Lo Stato della California ha infatti stanziato 1,3 miliardi di dollari per incentivare la produzione e l’uso di frigoriferi e lampadine a minor consumo, per vetrate e sistemi di refrigerazione dell’aria non elettrici, per piantare alberi o dipingere tetti. Il risparmio è equivalso a quanto altrimenti avrebbero dovuto produrre circa sei grandi centrali. Chi risparmiava più del 20 per cento nei mesi estivi otteneva addirittura un analogo sconto sulla bolletta.

Un sistema fotovoltaico
Un sistema fotovoltaico "ad inseguimento", in un campo prova dell'Enel. Impianti fotovoltaici ed eolici aumenteranno in misura esponenziale la produzione di energia elettrica nei prossimi anni, ma non potranno soddisfare più dell'1 per cento della richiesta energetica mondiale.
In conclusione, quello di cui il settore energetico abbisogna è maggiore economia: occorre liberalizzare e risparmiare, nel senso che il mercato dell’energia in Italia dovrebbe prosperare sui margini d’efficienza e non sulla quantità di consumi da far espandere. La liberalizzazione va fatta davvero fino in fondo, e l’economia dell’energia è anche il suo risparmio.

Va infine detto che è ormai ora di battere nuove strade. Secondo gli studiosi più autorevoli, l’unico modo per “cambiare energia” è quello di sviluppare l’innovazione e la ricerca sulle fonti alternative. Più che una scelta, come ha spiegato il premio Nobel Carlo Rubbia in una recente intervista a Cagliari, si tratta di una necessità vitale per tutti gli abitanti del pianeta. L’attuale dipendenza della produzione elettrica dalle sorgenti fossili – carbone, petrolio e gas naturale – è ormai prossima a diventare insostenibile sul piano dell’inquinamento ambientale.

Per rispondere alla domanda di energia, insomma, è necessario intervenire su diversi piani. E se l’Italia vuole ridurre la sua dipendenza dai paesi produttori, per sottrarsi al dominio dei black out, è in una prospettiva del genere che deve muoversi: da una parte, sviluppo delle fonti alternative, come il sole e l’acqua, per quella che Jeremy Rifkin chiama “l’economia dell’idrogeno”; dall’altra, controllo dei consumi in termini di efficienza e tecnologia, ma anche di razionalizzazione e risparmio energetico.