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editoriale

Una scelta strategica per il sistema Sardegna

Energia: emergenza del terzo millennio

Un Piano per il rilancio produttivo

Un cappio al collo per le industrie del Sulcis

Un ruolo strategico per metano e carbone

Le reti di distribuzione del gas

Sintesi del Piano energetico regionale

Sardegna, isola digitale

Per il turismo un modello di qualità

 

Un ruolo strategico per metano e carbone

 

Fra le scelte strategiche per dare competitività al sistema Sardegna quella energetica va considerata prioritaria. Il Piano energetico regionale punta soprattutto sul carbone, una risorsa giudicata insostituibile dall’Ue per sconfiggere il caro petrolio ed attenuare la dipendenza dalle altre fonti. Un ruolo rilevante anche al metano che, in attesa del gasdotto sottomarino, potrebbe arrivare nell’isola anche sulle navi metaniere.

di G.G. 

 

Montaggio del
Montaggio del "Taglio" nella
miniera di Nuraxi Figus

Carbone Sulcis. Il futuro dell’energia si chiama carbone. Una risorsa considerata strategica a livello comunitario, per sconfiggere il caro petrolio, ottenere chilowattora a prezzi più contenuti ed attenuare la dipendenza dalle altre fonti energetiche. Dicono i manuali scientifici che le riserve mondiali del carbone sono accertate per altri 228 anni, contro i 65 anni del gas naturale ed i 42 del petrolio. L’Italia è il paese che, in Europa, utilizza meno il carbone per la produzione di energia (appena il 9 per cento rispetto al 27 degli altri paesi europei, al 54 degli Usa ed al 39 mondiale), mentre utilizza il 31,5 per cento di petrolio, il 37,5 di gas naturale ed il 22 di fonti rinnovabili.

Non a caso, l’Europa ha concesso tempo sino all’anno 2007 perché i giacimenti possano essere gestiti in autonomia economica, senza ricorrere agli aiuti statali. Ipotesi che pone in primo piano la Sardegna, dove il ritorno in grande stile del carbone ha il sapore di un autentico miracolo. Soprattutto se si pensa che fu proprio il progressivo abbandono di un combustibile ritenuto antieconomico ed inquinante ad aprire la strada ad un’industrializzazione del Sulcis che oggi mostra i propri limiti proprio a causa del caro energia.

Ora, invece, il carbone è generalmente considerato il più conveniente tra i prodotti utilizzati per ottenere energia, seguito a ruota dal gas naturale (che la Sardegna non ha) e dai derivati del petrolio: olio combustibile e gasolio. Il discorso, ovviamente, riguarda anche il carbone Sulcis, custodito in un giacimento stimato in 600 milioni di tonnellate. Tradotto in termini energetici, significa circa 2.550 miliardi di milioni di chilocalorie, vale a dire circa un miliardo e duecento milioni di megawattora.

«In sostanza – chiarisce Giuseppe Deriu, direttore generale della Carbosulcis – vuol dire che una centrale termoelettrica da 1.000 MW che marciasse per 7.500 ore all’anno potrebbe essere alimentata col solo carbone Sulcis per 160 anni o, se si vuole, le attuali centrali termoelettriche a carbone sardo (640 MW di Fiumesanto, 240 MW di Portoscuso e la realizzanda centrale a letto fluido circolante da 320 MW), nell’ipotesi che marciassero tutte per 7.500 ore all’anno, potrebbero essere alimentate con il solo carbone Sulcis per circa 130 anni».

Le riserve calcolate dall’attuale concessione mineraria di cui la Carbosulcis è titolare ammontano a circa 50 milioni di tonnellate. Si tratta di riserve rese accessibili dalle infrastrutture minerarie già realizzate (pozzi, vie inclinate, gallerie di carreggio e di ventilazione ecc.). I costi di estrazione a regime, stimati da primarie compagnie minerarie carbonifere internazionali per una dimensione produttiva intorno al milione di tonnellate anno, sono sui 36-38 euro a tonnellata, contro un valore di mercato rapportato al potere calorifico e reso in centrale a Portovesme di 43-45 euro a tonnellata. Ciò significa che la miniera produrrebbe con un utile netto di circa 6 milioni di euro.

Trasporto di un minatore in una miniera del Sulcis
Trasporto di un minatore in una miniera del Sulcis
«Attualmente, la miniera è in grado di produrre fino a 350-400 mila tonnellate all’anno – aggiunge Deriu – e di arrivare al regime di un milione di tonnellate in meno di quattro anni, in piena compatibilità con le direttive europee del settore. Tuttavia, in assenza di una nuova centrale ed in caso di disponibilità dell’Enel ad utilizzare carbone nazionale a condizioni contrattuali eque, il carbone Sulcis può avere un mercato di sole 500-600 mila tonnellate all’anno, dimensione troppo piccola per una gestione in attivo della miniera». Come dire che il rischio di buttare via milioni di euro, investiti in tanti anni nella miniera, e di rinunciare non solo a coltivare il carbone sardo, unico carbone nazionale, ma anche di rinunciare contemporaneamente ad acquisire tecnologie a basso impatto ambientale ed a ridurre i costi dell’energia elettrica, è molto alto.

Questo anche perché il carbone Sulcis è considerato poco adatto ad essere bruciato nelle centrali elettriche, a causa dell’elevato contenuto di zolfo: circa il 7 per cento, contro lo 0,7-0,8 di quello importato dai paesi dell’Europa orientale e dall’Asia. E proprio per attenuare il tasso di zolfo, l’Enel lo utilizza nella centrale Sulcis 3, da 240 MW, miscelato con un 70 per cento di minerale di provenienza estera. In questo modo, attenua l’inconveniente e riesce ad ottenere le calorie necessarie. Anche se, alla fine, deve fare i conti con una quantità di residui di gesso, da smaltire, che rappresentano comunque un costo aggiuntivo.

Inconvenienti in buona parte contenibili negli impianti più moderni, a letto fluido, nei quali il progresso tecnico limita notevolmente le emissioni inquinanti, mentre il costo per chilowattora può ridursi a pochi centesimi di euro. Alla famiglia delle centrali più moderne appartiene anche quella da 340 MW che l’Enel ha in costruzione a Portovesme, nella quale potrebbero essere bruciate dalle 350 alle 400 mila tonnellate di carbone Sulcis.

Il condizionale è necessario, perché l’utilizzo del combustibile sardo è subordinato alla ripresa dell’attività della Carbosulcis, storica azienda mineraria in attesa di rilancio. L’unico suo cliente è l’Enel, con il quale ha in corso un contratto di fornitura (300 mila tonnellate all’anno), peraltro già scaduto. Oggi gli impianti sono fermi e non si sa come e quando saranno riattivati. «L’azienda potrebbe sfruttare un enorme giacimento – conferma il presidente Marco Baldinucci – ma in questo momento ha difficoltà persino a pagare gli stipendi ai 590 lavoratori rimasti dopo l’esodo incentivato».

«Qui regna una grande incertezza – lamenta Francesco Carta, segretario regionale della Filcea Cgil –. L’unico rimedio è la riattivazione degli impianti, non si può andare avanti con gli interventi sporadici. Sinora ci siamo preparati per la coltivazione del giacimento, ma sino a quando dovremo continuare così?». Un’incertezza che non riguarda solo il personale, ma tutta l’azienda, anche se il Piano energetico regionale assegna al carbone un ruolo strategico. Una conferma della “linea La Spisa”, in quanto l’Assessore ha sempre sostenuto la necessità di potenziare la produzione del carbone Sulcis, a patto di rendere economica la gestione delle miniere.

Speciale mezzo gommato della Carbosulcis per il trasporto di attrezzature in miniera
Speciale mezzo gommato della Carbosulcis per il
trasporto di attrezzature in miniera
Il Piano energetico avanza anche un’ipotesi in tal senso, recependo i risultati di uno studio compiuto dal Consorzio industriale del Sulcis. Secondo questa ipotesi, la gestione delle miniere sarebbe economica con una produzione annua di un milione di tonnellate ed un’occupazione di 630 addetti. «Un obiettivo minimo – sottolinea Mario Porcu, presidente del Consorzio – anche perché il centro di ricerche della Sotacarbo potrebbe dischiudere nuove, interessanti prospettive di utilizzo del carbone Sulcis».

Nel Piano energetico, peraltro, l’operazione di salvataggio delle miniere assume contorni precisi laddove vengono indicati anche i possibili utilizzatori del carbone Sulcis. Ebbene, le previsioni indicano che entro il 2005 si potrebbero bruciare 700 mila tonnellate di minerale sardo, mentre al traguardo del milione di tonnellate dovrebbe essere possibile arrivare entro il 2010. «Tenere le miniere in piedi fino ad allora costerebbe non più di 250 milioni di euro – rileva Porcu –, circa un miliardo in meno (sempre in euro) di quanto sarebbe costato il progetto della gassificazione dell’Ati Sulcis».

Anche l’assessore La Spisa è d’accordo nel ribadire «l’importanza strategica del carbone sardo», auspicandone la valorizzazione, ma «con sistemi che lo rendano anche competitivo».

Di una vera e propria “seconda era” del carbone si è parlato alla fine dello scorso maggio a Carbonia, in una saletta del municipio, dove è stato deciso di affidare ad un’associazione di imprese di due società romane (la Erma e la Monaco) l’appalto da un milione e mezzo di euro per la costruzione del Centro di ricerche sulle tecnologie avanzate del carbone. È stato il calcio d’inizio, l’avvio di un progetto da 15 milioni di euro (circa 30 miliardi in lire) che dovrà trasformare la vecchia miniera di Serbariu, alle porte della città, in un centro avanzato per lo studio e la sperimentazione del combustibile del futuro, l’idrogeno. Sarà un polo tecnologico unico in Italia, forse anche in Europa, la punta avanzata di una ricerca nel campo delle fonti energetiche alternative che si possono sviluppare attorno ad un combustibile povero ed inquinante come il carbone.

Nel Centro di ricerche il Comune di Carbonia ha deciso di investire i 2 milioni e mezzo di euro ottenuti cinque anni fa dalla Regione. Serviranno per recuperare i capannoni, consolidare le strutture, quindi ricavare uffici, laboratori, impianti. Sarà un complesso di 2.590 m2, su un’area di poco più di un ettaro. I laboratori occuperanno 1.430 m2: 300 serviranno per installare la “piattaforma sperimentale” con il reattore di gassificazione, la macchina alla quale verrà affidato il compito più importante, cioè ricavare l’idrogeno dal carbone.

Il Comune di Carbonia realizzerà la struttura, la Sotacarbo (per metà della Regione, per metà dell’Enea) si occuperà della gestione del progetto-idrogeno. Avrà due partner importanti: l’Ansaldo ricerche e l’Università di Cagliari. Ma al progetto, che ha già ottenuto il via libera (e la dotazione finanziaria di 11 milioni e 900 mila euro) del ministero dell’Università e della Ricerca scientifica, sono fortemente interessati anche gli esperti del Dipartimento dell’energia degli Stati Uniti. Insomma, la portata “mondiale” del progetto Sotacarbo è fuori discussione.

Il sindaco Tore Cherchi vede il Centro come «uno degli elementi più rilevanti nello sviluppo della nuova economia, perché con le miniere chiuse e le industrie immerse in difficoltà crescenti, il territorio ha bisogno di creare nuovi sbocchi nel terziario avanzato».

Restava in piedi, tutta da definire, la questione del rilancio dell’attività estrattiva. Una risposta, solamente teorica, anche se validissima, arrivava dallo studio della Sotacarbo, presentato dal presidente Mario Porcu al Comitato intergovernativo composto dai rappresentanti del ministero delle Attività produttive e della Regione. «Le conclusioni confermano – dichiarava Porcu – la fattibilità sia tecnica che economica del progetto, che dovrebbe coniugare la valorizzazione del carbone Sulcis con la fame di energia a basso costo delle grandi industrie metalmeccaniche».

In sostanza, il progetto era quello proposto dalla Regione all’indomani del fallimento della gassificazione. Prevede il riavvio della produzione della miniera a regime ridotto, per arrivare ad un milione di tonnellate all’anno, con un organico di 600 operai; quindi la costruzione di una centrale termoelettrica da alimentare per metà con il carbone Sulcis e per il resto con combustibile d’importazione. «Un impianto sinergico ad alta pressione, con un elevato rendimento ed un sistema di depurazione dei fumi che lo rendono perfettamente compatibile dal punto di vista ambientale», assicurava Porcu.

Il progetto prevede una centrale (potenza di 650 MW) basata su una tecnologia consolidata e moderna, in grado di garantire la produzione di energia a non più di 25 centesimi di euro a kilowattora, meno di un quarto di quello che attualmente le industrie pagano sul mercato dell’energia. La Sotacarbo conclude che un sistema miniera-centrale così dimensionato è in grado di “stare in piedi per 25 anni”, assicurando l’autonomia gestionale alla miniera e l’indipendenza energetica a tutte le industrie di Portovesme.

C’è però un piccolo “ma”: il sistema funziona a condizione che il progetto miniera-centrale possa avvalersi dei finanziamenti (dell’ordine dei tremila miliardi) stanziati nel 1994 dal Governo per la gassificazione. Soldi che sono rimasti nelle casse dello Stato e che diversamente sfuggirebbero al Sulcis. Indispensabili, però, come sottolinea Porcu, «per ammortizzare le diseconomie dell’avvio della miniera ed assorbire gli investimenti necessari per la nuova centrale termoelettrica». Soltanto riducendo praticamente a zero l’investimento iniziale, infatti, la centrale a carbone sarebbe in grado di abbassare i costi di produzione, rendendoli competitivi con quelli del resto d’Europa.

«Occorre quindi che il Governo nazionale – puntualizza Roberto Puddu, segretario regionale della Fnle-Cgil – trasformi il decreto del Presidente della Repubblica, vecchio di dieci anni, destinato a favorire la gassificazione del carbone e la privatizzazione della miniera, al fine di costruire una centrale termoelettrica da 600 MW di potenza, in grado di marciare con il combustibile fossile estratto dalla miniera di Nuraxi Figus».

Non sarà facile, però, far accettare agli ambientalisti la costruzione di un’altra centrale. «Quelli che gridano al lupo – aggiunge Puddu – dovrebbero ricordare che a Portovesme sono state demoliti alcuni anni fa due gruppi termoelettrici e che l’Enel, con la politica del rinvio, ne sta ricostruendo solo uno. L’altro è negli accordi col Governo e gli impegni vanno rispettati. Fino a pochi anni fa il parco termoelettrico di Portovesme disponeva di oltre 1.000 MW di potenza, oggi siamo intorno a 600. Quando sono stati abbattuti i gruppi obsoleti, si era stabilito che si sarebbe riportato tutto alla normalità. Fino ad oggi questo non è avvenuto».

«L’incertezza sul futuro della miniera – sostiene Mario Crò, della Uil territoriale – è legato anche all’assenza totale di una politica seria per lo sfruttamento delle risorse energetiche del territorio. Ati Sulcis ha abbandonato l’impegno da oltre quattro anni e non sono state proposte alternative. Si spendono ingenti risorse pubbliche, ma non si vedono soluzioni».

A fine gennaio di quest’anno si è parlato, con insistenza, di un interessamento all’acquisto della miniera di Nuraxi Figus da parte di una società venezuelana, la Bolivar Gold. Anche altre multinazionali, australiane e canadesi, in passato si sono avvicinate al carbone sardo, ma si è trattato sempre (e solo) di morbidi approcci. «Non si può continuare con l’interminabile sfilata degli stranieri – sostiene Francesco Carta, della Filcea-Cgil – e non è certo questo il metodo più corretto per valorizzare le risorse energetiche del territorio. Spetta alla Regione decidere sul riavvio del “Taglio” e la ripresa dell’attività produttiva«.

Una Regione che ha spesso messo in campo decisioni contraddittorie. «Si parlava di riavvio della produzione – ricorda Crò – e contemporaneamente si proponevano forti incentivi economici ai minatori per abbandonare il posto di lavoro. Sono stati errori tecnici imperdonabili perché, anche in funzione di una futura privatizzazione, senza aver ricomposto l’organico non sarà facile raggiungere i livelli di produzione che sono necessari per rendere la miniera competitiva». «Una spinta decisiva sembrava poter arrivare con le conclusioni della Sotacarbo – aggiunge Stefano Meletti della Rsu di fabbrica – ma anche questo lavoro non ha prodotto nulla».

Sono tanti, quindi, i nodi che l’assessore regionale all’industria, Giorgio La Spisa, è chiamato a sciogliere. «In breve tempo – puntualizza Carta –, perché il responsabile della politica industriale della Regione non può tenere in “riserva fredda” una miniera che può già produrre nuovamente carbone. Il Taglio è in grado di riprendere la marcia da un giorno all’altro, ma se l’Assessore non autorizza la ripresa produttiva, non c’è futuro. Non si può vendere una miniera ferma e questo si sarebbe dovuto capirlo da tempo».

Ultimamente, peraltro, è stata trascurata la parte commerciale e con l’unico acquirente, l’Enel, è venuto a scadenza il contratto di fornitura del carbone. Se quindi se ne dovesse estrarre, non sarebbe possibile immetterlo nel mercato, per mancanza del compratore-utilizzatore. «Siamo decisi ad ottenere risposte concrete dai politici regionali – conclude Fabio Enne della Cisl –. Ci dovranno dire a quali conclusioni sono arrivati dopo anni di attesa. Le promesse non possono continuare».

 

Montaggio del corpo cilindrico (del peso di 27o tonnellate) nella nuova centrale termoelettrica a letto fluido di Enel Produzione, a Portovesme
Montaggio del corpo cilindrico (del peso di 270 ton.)
nella centrale termoelettrica a letto fluido di
Enel Produzione, a Portovesme
Enel Portovesme.
Ci sono voluti anni di dure lotte, innumerevoli iniziative di mobilitazione, anche clamorose, per arrivare all’avvio dei lavori per la costruzione del primo dei due impianti di produzione che l’Enel è impegnato (accordo ministero Industria 11 giugno 1997) a realizzare in sostituzione dei gruppi 1 e 2 della termocentrale Sulcis. Il primo atto si compie nell’ottobre 2002, con l’arrivo nel porto industriale di Portovesme del “corpo cilindrico”, ovvero del “cuore” della nuova caldaia a letto fluido.

Il pesantissimo cilindro, per poter essere trasportato, impegnò mezzi speciali e severi controlli da parte dei tecnici dell’Enel e della società di trasporti per l’eccezionalità delle dimensioni. Si trattava infatti di un cilindro del peso di oltre 270 tonnellate, all’interno del quale avviene la separazione del vapore dall’acqua.

In verità, i lavori di fondazione e palificazione erano stati eseguiti in precedenza, ma con quell’arrivo si sanciva l’avvio della costruzione della centrale vera e propria. E con esso, il rinnovamento del parco elettrico previsto nel decreto di “Area ad alto rischio di crisi ambientale”, in base al quale erano stati abbattuti i due precedenti gruppi da 220 megawatt di potenza

A distanza di quasi sei anni, Enelpower avvia però il progetto per la costruzione di un solo gruppo e questo alimenta tensioni in tutto il polo industriale, dove un centinaio di operai rimangono senza lavoro. «Al di là di questi aspetti contingenti e drammatici – avverte Roberto Puddu, della Camera del lavoro di Carbonia – esiste un accordo fra le forze sociali ed il governo, che imponeva la demolizione di due gruppi termoelettrici inquinanti per sostituirli con altri impianti con moderna tecnologia. Nessuno pensi di opporsi alla realizzazione di quel progetto, perché quando a Roma è stato perfezionato l’accordo, tutti erano convinti della necessità di smantellare le vecchie centrali per rinnovarle secondo quanto previsto dalle nuove tecnologie».

 «Era nelle previsioni – ammette Roberto Straullu, della Uil territoriale – ed è per questo che occorre sollecitare il governo perché si attivi per la costruzione dell’altro gruppo. Il sindacato non sta inventando nulla, perché era stato concordato che a Portovesme dovessero essere demolite due centrali inquinanti, per rimpiazzarle con altri due gruppi. Ad oggi, quell’impegno è stato rispettato al 50 per cento».

 

Particolare della centrale termoelettrica di Fiumesanto
Particolare della centrale
termoelettrica di Fiumesanto
(foto G. Anedda)
Fiumesanto.
Conclusa la fase sperimentale, ai primi di luglio 2003 il gruppo 3 della termocentrale di Fiumesanto inizia a bruciare il carbone. A fine agosto, i primi risultati, ritenuti soddisfacenti, sia sul piano produttivo che su quello ambientale. Lo assicura Endesa nel corso di una conferenza stampa, appositamente convocata per illustrare i dati delle emissioni nell’ambiente, fornendo anche gli elementi di raffronto col passato, quando la centrale marciava ad olio combustibile o ad orimulsion.

Per Paolo Venerucci, si tratta di dati assolutamente confortanti, riferiti ad un monitoraggio di 720 ore fatto nel primo mese di funzionamento a carbone. Gli strumenti hanno rilevato concentrazioni di polveri in quantità inferiori di un terzo rispetto agli altri gruppi che bruciano olio combustibile. Altrettanto può dirsi per le emissioni di anidride solforosa. A vigilare sulla qualità dell’aria, cinque centraline ubicate a Stintino, Pozzo San Nicola, Campanedda, Li Punti e Platamona, che si aggiungevano a quelle gestite dalla Provincia.

Nel corso della conferenza stampa, nel corso della quale Endesa conferma anche il suo interesse ad utilizzare metano non appena disponibile, si parla anche della produzione di cenere e gessi. «Sono una risorsa nella produzione elettrica», puntualizza Paolo Venerucci. E su questo c’erano pochi dubbi, con qualche preoccupazione sul loro smaltimento. Mentre a Monfalcone le ceneri venivano acquistate dalle aziende per produrre cemento, finora nell’isola nessun imprenditore aveva mostrato interesse per il prodotto. «Abbiamo anche tentato una campagna di promozione – sottolineano i vertici Endesa – ma senza grandi risultati. Abbiamo invece trovato un’azienda, in Spagna, e lì avvieremo il nostro prodotto». Attualmente, il quantitativo previsto di ceneri è di circa 120 mila tonnellate annue.

Analogo discorso per i gessi, 130 mila tonnellate di produzione all’anno. In Europa c’è la corsa al loro acquisto per la produzione di pannelli, calcestruzzo ed asfalto. «Da noi ancora non c’è richiesta – sostiene Venerucci – eppure con un briciolo di spirito imprenditoriale si potrebbe insediare un’azienda proprio nell’area industriale di Porto Torres per il loro trattamento». In Italia, l’utilizzo dei gessi per la produzione di asfalto è vietata dalla legge Ronchi. «Ma siccome il loro utilizzo consente di produrre asfalto di ottima qualità, se qualche azienda sarda fosse interessata, potrebbe chiedere il nulla osta alla Regione. Insomma, le opportunità ci sono, basta coglierle».

Pochi mesi dopo, alla fine di ottobre, Endesa Italia porta a termine la conversione a carbone del gruppo 4, da 320 MW, della centrale di Fiumesanto. Il progetto, per un investimento complessivo di 20,5 milioni di euro, era stato avviato subito dopo la conversione da orimulsion a carbone del gruppo 3, sempre da 320 MW.

Due mesi di pieno regime per le due centrali nuove di zecca ed ecco l’imprevisto, subito dopo Natale. È bastato che un ingranaggio facesse cilecca e cinquecento metri del carbondotto, il “serpentone” lungo sette chilometri che trasporta il carbone dal pontile alle centrali, costato alcune centinaia di milioni di euro, vanno in fumo. L’incendio si era sviluppato all’altezza della torre 5, la più grande fra quelle in cemento armato realizzate per reggere il carbondotto, e si era rapidamente propagato per almeno mezzo chilometro. «Danni per milioni di euro e conseguente blocco dell’attività di scarico del minerale per almeno due mesi», è la prima amara diagnosi dei tecnici dell’Endesa.

Interno della centrale termoelettrica di Fiumesanto
Interno della centrale
termoelettrica di Fiumesanto
La disavventura non fa comunque cambiare i programmi all’Endesa, come è detto con chiarezza a gennaio di quest’anno, durante la cerimonia di presentazione della campagna pubblicitaria e di sponsorizzazioni. Tre i progetti in cantiere: il primo riguarda l’ambientalizzazione (cioè la riduzione delle emissioni inquinanti) dei gruppi 1 e 2 della centrale di Fiumesanto, ad olio combustibile. Un piano strettamente collegato alla realizzazione dell’elettrodotto tra il nord Sardegna e Latina, che giustificherebbe l’investimento di 200 milioni di euro. L’obiettivo è quello di entrare prima possibile entro i limiti più restrittivi in materia di inquinamento, fissati per il 2008.

Il secondo progetto della società spagnola (ma il 15 per cento è in mano all’Asm, l’ex municipalizzata dei servizi pubblici di Brescia) riguarda un’iniziativa che è stata presentata a febbraio: l’utilizzo dei combustibili da rifiuti direttamente in centrale. Si tratta di un’iniziativa studiata insieme a Pirelli Ambiente, che potrebbe consentire, se realizzata, 40 nuove assunzioni.

Il terzo progetto attiene all’intensificazione della produzione di energia pulita, con la realizzazione di un nuovo parco eolico. Un impianto che dovrebbe avere dimensioni superiori a quello dell’Enel attualmente in funzione.

E proprio le prospettive di sviluppo del territorio sono discusse in un importante dibattito, promosso dalla Confindustria sassarese, d’intesa con le segreterie confederali di Cgil, Cisl ed Uil, alla fine di gennaio di quest’anno. Tema del dibattito: “Il polo energetico di Fiumesanto e l’Accordo Stato-Regione del 19 dicembre”.

Fra gli argomenti maggiormente dibattuti, l’ubicazione del nuovo elettrodotto da 1.000 MW. «La realizzazione dell’elettrodotto a Fiumesanto – dice in quell’occasione Paolo Venerucci – è l’unica opzione che consente alla centrale di continuare ad esistere e programmare investimenti. Sappiamo che ci sono istanze per collocare il cavo energetico in altri territori, ma se così fosse il polo energetico scomparirebbe. È una questione oggettiva, non una scelta nostra».

Il faccia a faccia tra tutti i soggetti interessati (anche se i parlamentari sono assenti) consente di mettere un punto fermo: il polo energetico di Fiumesanto rischia la chiusura. «Azzerando il polo energetico e quello petrolchimico – avvertono i rappresentanti sindacali – si mettono per strada quasi quattromila lavoratori».

Tutto si gioca, quindi, sulla localizzazione dell’elettrodotto, che – stando alle logiche economiche e tecniche – dovrebbe essere realizzato con un cavo sottomarino che, partendo da Fiumesanto, dovrebbe arrivare ad Olbia e da qui a Latina. Un problema che il sindaco di Porto Torres, Gilda Usai Cermelli, definisce «del territorio e non di una città». 

Il ministro delle Attività produttive Antonio Marzano al vertice di Roma sul metanodotto Algeria-Sardegna-Italia
Antonio Marzano,  ministro
delle Attività produttive, al
vertice di Roma del 14 aprile
2003 sul metanodotto Algeria
Sardegna-Italia
Metano.
Il progetto di Piano energetico regionale ripercorre le tappe della metanizzazione, dall’Accordo istituzionale di programma siglato il 21 aprile 1999 tra il Governo della Repubblica e la Regione autonoma della Sardegna, di cui “Sardegna industriale” ha pubblicato un’ampia sintesi sul n. 2 del 1999.

Si legge nel Piano energetico regionale, approvato dalla Giunta regionale nell’aprile del 2003, che, a breve termine, in attesa che le miniere del Sulcis siano in grado di incrementare la propria produzione fino a 1 milione di tonnellate/anno (per la qual cosa occorreranno non meno di 8‑10 anni), la soluzione a gnl (gas naturale liquefatto) è praticabile almeno nel polo industriale della provincia di Cagliari (per gli altri bacini, la realizzazione dei terminali a gnl potrà essere rimandata a quando sarà completato il metanodotto), già dotato di infrastrutture industriali, in particolare di un porto adatto alla ricezione delle navi metaniere. In questo modo, si potrebbe alimentare la rete di distribuzione locale, dall’area industriale di Cagliari­-Assemini al polo del Sulcis, prevedendo il collegamento con la dorsale principale che attraverserà l’isola da Sud a Nord, proveniente dall’Algeria (come riporta lo studio di prefattibilità del “Progetto di metanizzazione della Sardegna”, elaborato nel 1999 dalla società G&Fint ).

I due sistemi non sono in contrasto, dal momento che comunque la rete locale dovrà essere realizzata, in quanto diramazione della conduttura principale. Perché la proposta acquisti una meritata considerazione, si tenga presente che la Regione Veneto e le associazioni industriali, innanzi al progetto offshore della Edison, hanno siglato un Protocollo aggiuntivo, che prevede la fornitura di gas naturale a costi concorrenziali per assicurare una più alta competitività del comparto industriale. Come noto e ampiamente illustrato, l’apparato industriale della Sardegna presenta la grave anomalia di assoluta mancanza di disponibilità di gas naturale, che limita fortemente lo sviluppo e la competitività, in quanto non ha possibilità di diversificare l’approvvigionamento energetico. Questa soluzione sarebbe particolarmente vantaggiosa per l’imprenditoria locale, la quale, costituendosi parte attiva in consorzi, analogamente all’industria veneta dell’esempio sopradescritto, potrebbe orientarsi verso una produzione in proprio dell’energia necessaria ai processi industriali, essendo l’autoproduzione una modalità capace di abbattere i costi energetici.

Questa proposta consentirebbe, inoltre, brevi tempi di realizzazione, dell’ordine di tre anni, così che l’impianto programmato sin da ora potrebbe entrare in esercizio già dal 2006. La disponibilità del gas naturale e la realizzazione della diramazione della conduttura principale del gasdotto, consentirebbe anche di alimentare utenze civili (terziario e residenziale), in particolare quella numerosa dell’area di Cagliari, le centrali elettriche a ciclo combinato Gncc ad alto rendimento e a limitate emissioni di gas inquinanti, oltre le già citate utenze industriali. Successivamente, anche gli altri terminali potrebbero essere collegati con il gasdotto e costituire una sorta di sistema di accumulo, una riserva di combustibile, sia per il sistema regionale che per quello nazionale.

In definitiva, conclude il Piano, la realizzazione dei terminali di rigassificazione non è in contrasto con la realizzazione del metanodotto, ma anzi le due soluzioni sono complementari.

Il gas naturale liquefatto (gnl) è costituito principalmente da metano (circa 90%), da etano, propano, butano e da azoto, quest’ultimo con percentuale inferiore all’1%; è ottenuto per raffreddamento del gas naturale fino alla temperatura di ‑160 gradi , e a parità di contenuto di energia il suo volume allo stato liquido è circa 600 volte inferiore rispetto a quello proprio dello stato gassoso, ciò che rende possibile ed economico il trasporto via mare.

La motonave
La motonave "Agip Siracusa" per il trasporto di
metano liquido, al momento del varo
Le metaniere sono navi lunghe qualche centinaio di metri, navigano alla velocità media di 18 nodi (33 km/h) e sono dotate di doppio scafo; sono necessarie circa 10 ore per riempirne una dalla capacità di 120.000 metri cubi.

In Italia esiste un unico impianto del genere, situato a Panigaglia, in Liguria. È costituito da due serbatoi di stoccaggio del gnl, riforniti appunto da navi metaniere, dal volume complessivo di 100.000 metri cubi , dislocati su un’area di 45.000 metri quadrati. Nel terminale il metano liquido viene riportato allo stato gassoso con una semplice operazione di riscaldamento e quindi immesso nella rete di distribuzione. Nel corso dell’anno 2001, l’impianto ha immesso in rete 3,6 miliardi di metri cubi di gas.

A livello nazionale è prevista la costruzione di ulteriori impianti di rigassificazione: la deliberazione Cipe n. 121 del 21 dicembre 2001 (“Legge obiettivo: Primo Programma delle infrastrutture strategiche”) nell’allegato 4 riporta il piano degli interventi nel comparto energetico. In particolare, le infrastrutture nel settore del gas sono considerate di interesse strategico e sono previsti finanziamenti compresi tra 1.750 e 1.930 milioni di euro per i terminali di rigassificazione, mentre altri finanziamenti sono previsti per la rete del gas e per gli stoccaggi nazionali di gas in sotterraneo. Esiste inoltre la possibilità di realizzare terminali a gnl “offshore”, così come proposto dalla società Edison.

Nel resto d’Europa, in particolar modo in Spagna e Francia, che già possiedono una rete di distribuzione di gas molto evoluta, vi è un largo utilizzo degli impianti di rigassificazione ed altri sono in fase di programmazione.

Tornando al gas naturale non liquefatto, va ricordata l’importante tappa del febbraio del 2003, quando è stata costituita a Milano la Galsi (Gasdotto Algeria Sardegna Italia) spa, tra Edison Gas (che ha il 20 per cento del capitale), Enelpower (società di ingegneria dell’Enel, che ha il 15 per cento), Eos Energia (società operante nel trading energetico controllata da Hera, con il 10), Sonatrach (società nazionale idrocarburi algerina con il 40) e Wintershall Ag (operatore energetico tedesco, facente capo al gruppo Basf, con il 15). Contestualmente, è stato nominato presidente della società Renato Pozzi, sardo di nascita, direttore tecnico della Edison Gas.

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Il ministro algerino dell'Energia, Chakib Khelil, e l'ex presidente della Regione Sardegna, Mauro Pili , nel corso dell'incontro del 15 aprile 2003, a Villa Devoto, sul nuovo metanodotto Algeria-Sardegna-Italia
Alla società spetta il compito di verificare la possibilità di realizzare il nuovo metanodotto per l’importazione di gas naturale algerino in Italia. Il progetto, che dovrebbe collegare l’Algeria al nostro Paese attraverso la Sardegna, riveste un elevato valore strategico per lo sviluppo del sistema italiano di gas naturale. Il gasdotto – si legge in una nota diramata all’epoca dalla neonata società – assicurerebbe l’ottimizzazione delle fonti di approvvigionamento di gas, supportando la crescita del mercato energetico europeo, e darebbe il via al programma di metanizzazione della Sardegna.

I dettagli del progetto li ha spiegati Renato Pozzi. «Il terminale a Cagliari sarà nella zona industriale e, seguendo pressappoco il tracciato della Carlo Felice, arriverà a Porto Torres, da dove una condotta sottomarina porterà il gas in Continente. Qui avverrà il collegamento con la rete di distribuzione della Snam: è ancora da decidere se in Liguria o in Toscana, ma comunque vicino al baricentro dei consumi italiani, che è al nord. Tecnicamente, non è neanche da escludere l’opzione di un passaggio del gasdotto in Corsica, altra isola senza accesso al metano. In questo caso, il progetto coinvolgerebbe anche la Francia».

«Gli algerini – spiega Pozzi – mandano già il metano in Italia attraverso la Tunisia e la Sicilia con il gasdotto “Enrico Mattei”, la cui potenza potrebbe anche essere aumentata. Ma nel caso del Galsi il vantaggio è dato dalla lunghezza del tragitto di gran lunga inferiore. Il gas non fa eccezione alla regola di tutti i trasporti: meno strada si fa, meno si spende».

Nelle tubazioni dovrebbero passare circa 9/10 miliardi di metri cubi di metano all’anno. Un miliardo per soddisfare i bisogni della Sardegna, il resto destinato al Continente. Dopo lo studio di fattibilità, che dovrebbe essere completato entro il 2004, occorreranno almeno cinque anni per la realizzazione dell’opera ed una spesa non inferiore ai due miliardi di euro.

Ad aprile 2003 altri due incontri importanti, lungo la strada per la metanizzazione. Il primo, a Roma, tra il ministro delle Attività produttive, Antonio Marzano, ed il ministro dell’Energia e delle Risorse minerarie dell’Algeria, Chakib Khelil. Al “vertice energetico” romano erano presenti ai massimi livelli l’Edison (con il presidente Umberto Quadrino) e l’Enel (con l’amministratore
L'amministratore delegato dell'Eni, Vittorio Mincato
L'amministratore delegato dell'Eni, Vittorio Mincato
delegato Paolo Scaroni), c’erano addetti ai lavori un po’ da tutto il mondo, una èlite multietnica dell’energia. Tutti hanno parlato di «un progetto da studiare attentamente in uno scenario di crescita e di sicurezza dell’approvvigionamento per i paesi europei. Presenta sfide tecniche che vanno affrontate da imprese all’avanguardia e richiede investimenti per miliardi. C’è uno scenario energetico di apertura alla concorrenza e servono nuove infrastrutture».

L’unica incrinatura all’ottimismo è venuta dall’amministratore delegato dell’Eni, Vittorio Mincato: «Nel 2002 la richiesta di gas è diminuita ed è destinata a scendere ancora. Sopravviveranno soltanto gli operatori più forti e con una visione di lungo periodo. I progetti presenti e futuri di sviluppo delle infrastrutture porteranno di fatto ad un significativo eccesso di offerta, a fronte di una domanda interna molto conservativa: appena 90 miliardi di metri cubi nel 2010, contro i 75 di oggi». Secondo Mincato, il metano che raggiungerà la Sicilia in base agli accordi già raggiunti con l’Algeria (e che andrebbe ad aggiungersi ai progetti Eni Greestream, di collegamento con la Libia, ed ai grandi gasdotti Tag e Ttpc da Russia ed Algeria) gonfierebbe ulteriormente la “bolla del gas”, portandola a circa 25 miliardi di metri cubi all’anno.

La replica a Mincato non si è fatta attendere. È arrivata direttamente dal presidente della Giunta allora in carica, Mauro Pili, protagonista del secondo incontro importante di metà aprile. Il ministro algerino, infatti, dopo la missione romana ha fatto tappa in Sardegna, per parlare del progetto Galsi. «L’Algeria – ha detto Khelil – soddisfa attualmente il 12 per cento della richiesta totale europea e si impegna ad aumentare la produzione in maniera costante, regolare ed affidabile». Gli ha fatto eco Pili: «La Regione Sardegna entra, da oggi, nel progetto con Sfirs e Progemisa, che avranno il 5 per cento del capitale. Quanto alle affermazioni di Mincato, le trovo quanto meno interessate, dato che l’Eni non è impegnato in Galsi. Si tratta di una posizione preconcetta e di parte e credo che i pareri dei due governi, quello italiano e quello algerino, valgano di più. Lo scenario economico è credibile anche nel caso di una flessione dei consumi». L’allora presidente della Regione giudicava il progetto «una opportunità strategica per la Sardegna e per il bacino euromediterraneo», che andava considerata fra le priorità a livello europeo.

Più riflessiva la posizione dell’assessore regionale dell’industria, Giorgio La Spisa: «È positiva la convergenza ai massimi livelli istituzionali, anche se la posizione scettica dell’Eni non può non preoccupare. I tempi saranno lunghi, ma ciò che conta è la convinzione dell’utilità del progetto».


Le fonti rinnovabili

Energia eolica. Il business dei nostri giorni. Il progetto di sfruttare il vento per produrre energia pulita ha un nome preciso: parco eolico. Un sistema che utilizza il vento per ottenere corrente elettrica senza rilasciare scorie.

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Due dei 7 aerogeneratori Vestas V66 a tre pale, alti 67 metri, nella centrale Enel Green Power di Fiumesanto (Alta Nurra)
 
 
Al momento attuale, sono tre i parchi eolici in funzione nell’isola: Aggius, Monte Arci e Fiumesanto. Ma, dal luglio 2001 all’aprile scorso, sono arrivate alla Regione 87 richieste di autorizzazione per realizzare nuove centrali, per un totale di 3.734 MW (1 MW, ricordiamo, equivale ad un milione di watt). Se fossero state approvate tutte, in Sardegna sarebbero spuntati come funghi 2.775 generatori, con una produzione elettrica superiore a quella prevista dal Piano energetico regionale per l’anno 2012.

È stato quasi un assalto, portato da 23 società, che non ha risparmiato neppure un angolo della Sardegna. Qualche esempio: il record ad Alà dei Sardi e Buddusò, dove la società Enerprog vorrebbe installare 198 generatori; 99 sono quelli previsti dalla Friel tra Villanova, Villasalto e San Nicolò Gerrei; 96 ad Ulassai (Sarvent); 70 a Pattada (Suntec Italia); 50 a Scano Montiferru (Vcc Energia); 64 a Ninnai-Dolianova (Enel Greenpower). E via installando.

Tutte richieste presentate al di fuori di un disegno pubblico. «Anche chi, come noi, è assolutamente favorevole all’energia eolica – spiega il presidente regionale di Legambiente, Vincenzo Tiana – ritiene che i progetti vadano esaminati nell’ambito di un’area vasta, in modo che si possa tenere conto di tutti i fattori di ordine economico, ambientale e paesaggistico coi quali interagiscono».

L’assessorato regionale della Difesa dell’ambiente ha comunque filtrato le richieste. «Delle 87 domande di verifica presentate – spiega il direttore generale, Antonio Conti – 14 (per una potenza di 1.150 MW, riferiti a 882 generatori) sono state ammesse alla successiva Valutazione di impatto mbientale. Per altre 17 (695 MW e 523 generatori) è stata esclusa la Via, mentre 50 pratiche sono state respinte per documentazione incompleta».

Una selezione severa. Nel frattempo, la Regione si è resa conto che la richiesta indiscriminata di autorizzazione a costruire centrali eoliche doveva essere disciplinata. «Dal 30 aprile dello scorso anno – dichiara Rosanna Carcangiu, responsabile del settore Verifica ambientale – tutti i progetti vengono sottoposti a Valutazione di impatto ambientale. La Giunta ha infatti approvato le “Linee di indirizzo e coordinamento per la realizzazione di impianti eolici in Sardegna”, che disciplinano l’intero settore. Conseguenza importante, i progetti da sottoporre alla Via saranno selezionati attraverso un bando pubblico, che prevedrà l’installazione di una certa quota di potenza eolica in funzione della capacità della rete elettrica e dello stato di attuazione del Piano energetico regionale».

Tutto bene, dunque? Nemmeno per idea, almeno a sentire il presidente del Comitato nazionale del paesaggio, Carlo Ripa di Meana. «La Sardegna rischia di essere trasformata in un’enorme fattoria del vento – ha detto Ripa di Meana durante una recente visita a Cagliari – una selva di pale metalliche e piloni alti cento e più metri, con danni irrimediabili per tutti gli angoli più suggestivi dell’isola». Un allarme in piena regola, raccolto da associazioni ambientaliste e partiti politici.

Ripa di Meana ha spiegato i rischi che la Sardegna corre se verrà realizzato il programma messo a punto dall’Enel e da alcuni imprenditori privati, che operano nel campo della produzione di energia elettrica. Un programma che prevede la realizzazione di almeno 2 mila turbine mosse dal vento, da dislocare sui crinali, sui pendii delle colline e delle montagne sarde. Insediamenti che possono crescere a dismisura, per arrivare fino a 5 mila torri. «Una selva di piloni – ha avvertito – che deturperà irrimediabilmente il paesaggio, perché sarà necessario costruire strade, elettrodotti, cabine, depositi, linee elettriche che avvolgeranno l’isola con una immensa ragnatela di fili elettrici».

Un pericolo denunciato anche in Consiglio regionale, con una interrogazione presentata dal gruppo dei Democratici di sinistra, primo firmatario Emanuele Sanna. Nel territorio nazionale, sottolinea l’interrogazione, sono state già installate quasi 1.600 di queste turbine, ma la produzione ottenuta è di circa lo 0,5 per cento dell’energia consumata. Perché allora non puntare sul fotovoltaico, sull’energia ottenuta dal sole, come ha recentemente proposto anche Carlo Rubbia? Per Ripa di Meana la risposta è semplice: «Perché con il sistema del vento si ottengono risultati economici eccezionali, anche se a discapito dell’ambiente».

E proprio sulla scelta dei siti dove ubicare le nuove fattorie del vento si soffermano le critiche dei consiglieri regionali Ds. «Darebbero un colpo mortale alle fattorie vere, quelle nelle quali si fa agricoltura e zootecnia. I nuovi impianti eolici in Spagna, Francia, Germania ed Olanda, i Paesi nei quali questo tipo di energia è largamente usato, vengono costruiti lungo le coste, nel mare, lontano dalle montagne, dalle pianure, dalle zone turisticamente più rinomate. Perché da noi si devono deturpare monti e colli, crinali e pendii, che potrebbero ben più proficuamente essere utilizzati per l’agricoltura o il turismo?». 

Impianto smaltimento fanghi dell'inceneritore della Tecnocasic, nell'area industriale di Cagliari
Area industriale di Cagliari: 
impianto smaltimento fanghi 
dell'inceneritore rifiuti solidi
della società Tecnocasic
Biomassa.
Attualmente in Sardegna un quantitativo annuo significativo di legna (circa 150.000 metri cubi, secondo Statistiche dell’agricoltura, Istat, 2001) viene utilizzato in modo irrazionale nei tradizionali caminetti, ma anche nei caminetti‑caldaia, i quali, tuttavia, rappresentano pur sempre una forma più razionale d’impiego. Al contrario, la combustione in centrale, con la tecnologia della postcombustione, consentirebbe di eliminare le emissioni in atmosfera di diverse sostanze nocive prodotte dalla combustione incompleta del legno.

Secondo i dati forniti dal Corpo forestale e di vigilanza ambientale, su un territorio di 2.408.990 ettari, 872.541 sono ricoperti da boschi.

È opportuno, però, in un’ipotesi più realistica, individuare le zone a maggior densità lignocellulosica, che potrebbero giustificare la realizzazione di centrali per la produzione di energia. Sotto questa ipotesi si può affermare che, individuate 9 stazioni di riferimento per un totale di circa 650.000 ettari di bosco, ossia di 800 mila tonnellate di legna, è possibile alimentare 9 centrali del tipo a cogenerazione da 10 MW ciascuna.

Digestione anaerobica dei reflui zootecnici e biogas. Per il Piano sono da prendere in considerazione le deiezioni di due categorie animali: bovini e suini. Dalle tabelle che corredano lo studio, si ricava che nell’isola esistono circa 250 mila bovini e 200 mila suini. Considerando una corrispondente produzione di reflui, rispettivamente di 10 mila e 1.600 mc/giorno, si può stimare un limite massimo della produzione di energia primaria, nel caso si potessero utilizzare interamente tali quantitativi di reflui, in 45 ktep/anno.

Ovviamente nella realtà non è pensabile di poter utilizzare tali quantitativi, data la frammentarietà con la quale si presentano le aziende e la relativa bassa densità territoriale. Il censimento delle aziende isolane mette in evidenza proprio quest’aspetto. 

Nel complesso, dunque, il contributo alla produzione di energia elettrica dai reflui zootecnici è stimato in 6-7 ktep/anno.

Biodiesel.Le piante oleaginose come soia, colza e girasole possono essere opportunamente trattate al fine di ottenere olii vegetali. Sono piante ricche di materie proteiche le quali, dopo il processo di estrazione dell’olio, possono essere recuperate e utilizzate per rea­lizzare mangimi per animali.

Gli olii possono essere utilizzati come combustibile nello stato in cui vengono estratti, oppure a seguito di un processo di esterificazione che ne stabilizza le caratteristiche chimico-fisiche; vengono anche utilizzati come combustibile nei motori diesel.

La produttività media è stimata in una tonnellata di biodiesel per ettaro di oleaginosa. Ciò significa che, date le estensioni territoriali dell’isola, si potrebbero ottenere annualmente circa 10 mila tonnellate di biodiesel, che in termini energetici equivalgono a 9 ktep/anno.

Fermentazione alcolica.Attualmente l’unica coltura che può ricoprire un ruolo in questo settore, in Sardegna, è la barbabietola da zucchero. Poiché la produttività del bioetanolo è di circa 1,5 t/ha, avendo a disposizione 3.800 ettari, si potrebbero produrre 5.700 t/anno, che equivalgono a 4 ktep/anno.

Energia geotermica.Esistono numerose testimonianze di utilizzazione delle acque calde in Sardegna. Sono noti sin dall’antichità i siti di Sardara, Fordongianus, Villasor, Benetutti. In tempi più recenti, la Sardegna è stata oggetto solo di sporadiche ricerche di risorse endogene. Poche, in verità, sono state le ricerche sistematiche: dagli anni Sessanta solo quelle attuate dalla Società elettrica sarda per la ricerca di vapore nell’area di Casteldoria (analisi fisica all’interno di fori di oltre 1.500 metri).

In definitiva, il quadro geotermico sardo è promettente e potrebbe risolvere molti problemi di piccole e medie comunità. Rispetto ad altre fonti energetiche, però, quella geotermica necessita di uno studio approfondito con un investimento iniziale per far fronte alla carenza di fori, di strumentazione e di laboratori attrezzati.